Le solitarie/L'appuntamento

L'appuntamento

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Una volontaria Mater admirabilis
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L’APPUNTAMENTO.

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Aveva risposto — sì — senza sapere quel che dicesse. Piacere, tremore, turbamento, ed una floscia vigliaccheria ed una oscura curiosità le avevan levato di bocca il passivo monosillabo, udendo le parole sottilmente imperative:

— Verrà. Deve venire. Non è vero?... Un po’ di bene me lo vuole?... Lunedì alle tre, davanti alle colonne di San Lorenzo. Da brava, non faccia capricci. Si fidi di me. Dopo ci penso io.

La sua sensibilità, di solito così acuta che un nulla la feriva, non era stata menomamente offesa dall’aridezza volgare di quell’ultima frase. La bocca che l’aveva pronunciata era di quelle che si soglion chiamare irresistibili; e non solo ridendo, ma anche parlando, metteva in mostra, sotto i baffi [p. 238 modifica] castani, denti troppo uguali, troppo abbaglianti, che ferivan gli occhi come la rampa accesa d’un palcoscenico.

Dell’uomo curvo sopra di lei non vedeva che quella luce della bocca; non sentiva, nell’umile carne inquieta, che il fluido animale.

E aveva risposto “sì„. — Ecco. Ed era la moglie d’un professore di ginnasio. Ed era correttissima dalla punta dei capelli alla punta delle scarpette. E capiva di fare un salto nel vuoto; ma nulla avrebbe potuto trattenerla.

Spolverando mobili, rivedendo i conti della domestica, rammendando le maglie e le mutande sempre ragnate del professore, leggendo fra un punto e l’altro un libro di passione recentemente uscito che agiva su di lei come una puntura di morfina, attese, silenziosa, stupefatta di se stessa, il lunedì. La notte non dormiva, nel letto grande dove il suo meschino compagno se ne stava immerso in un sonno di mummia, aggrovigliato, nerastro, tutto nodi, un sarmento. E pensava che, tanti anni prima, l’unica volta in cui era stato promesso ad una certa bimba di condurla a teatro, quella tal bimba non aveva più potuto prender pace nè sonno, cercando di [p. 239 modifica] raffigurarsi in tutte le guise la festa che l’aspettava: “E come sarà?... e quanto durerà?... e la reginetta avrà veramente una veste color di luna?... e il principe porterà veramente un elmo d’oro?...„

....Quel lunedì, a farlo apposta, piovve.

Piovve a scroscio, da mattina a notte, senza interruzione, come se il cielo si fosse spaccato per l’eternità.

Acqua a ondate dalle nubi, a zampilli dalle grondaie, a rigagnoli, a pozzanghere lungo le vie. Il febbraietto “corto e maledetto„ si accomiatava in quel modo, con un diluviale vomito d’acqua che ingiuriava uomini e cose.

La pioggia tamburellava, accanita, contro i vetri delle finestre: balzava sui selciati in bolle e spruzzi, dava agli asfalti lucentissime e gelide trasparenze di specchi, sgocciolava dalle stecche della moltitudine di ombrelli ingombrante piazze e strade, flagellava il mondo, affogava la luce.

L’implacabile ostilità dell’elemento parve per un minuto respingere nel buio del portone la donnina imbacuccata in un mantello color di ardesia, trepidante nell’atto di aprire il parapioggia. [p. 240 modifica]

Ma non fu che un minuto. Sotto l’acquazzone che rinvestiva, navigando fra le pozzanghere (senza soprascarpe di gomma per non guastar l’estetica degli stivaletti di falso cuoio a tacco altissimo), a piedi perchè il borsellino tenuto assai magro dalla parsimonia del marito non le permetteva il lusso d’una carrozza, e i tram sovraccarichi di gente le fuggivan davanti senza badare ai suoi richiami, — Gianna Morgagni detta Gégé mosse verso il suo primo appuntamento d’amore.

D’amore?... Ignorava, a dir vero, come fosse l’amore. Per questo voleva conoscerlo. Diceva a se stessa: O oggi o mai più. — L’avevano sposata, a diciott’anni, con un brav’uomo che pareva un ramo secco da gettar nel fuoco. Bellina, ma senza dote, senz’arte: ringraziasse Dio d’aver pescato un marito!...

Ma l’ometto aveva il fiato pesante, il discorso pesante, e — qualche volta, quando i ragazzi in iscuola gli avevan graffiato i nervi a sangue — la mano pesante. Gli mancavano quattro incisivi, gli si brizzolavano già i capelli duri e dritti come setole, e durava ore ed ore su fasci di compiti da correggere, dai quali si alzava inebetito, con macchie [p. 241 modifica] giallo-verdognole alle tempie ed agli zigomi. E non s’accorgeva che Gégé era carina, piccolina, con morbidi capelli biondi e il nasetto voltato in su.

E niente figli.

In compenso, libri. Valanghe di libri.... L’ometto aveva la mania dei libri. Non beveva, non fumava; ma riempiva di volumi la casa, che s’impregnava della loro impalpabile polvere. Piccoli, grossi, antichi, moderni. E Gégé li leggeva tutti, per noia; e molti non li capiva; ma su molti ritornava, dimenticando le ore, con occhi accesi, con bocca avida: sui romanzi e sui poemi d’amore.

Era, per lei, come stappare una fiala di essenze e tenerla accostata alle nari fino a svenirne. L’amore!... Con tutti i volti, tutti i nomi, tutte le fiamme, tutte le carezze, tutte le lagrime. Viverlo, almeno un giorno!... La donnina biondetta, magretta, un po’ incolore, ma suffusa d’una certa sua grazia fluida, si guardava nello specchio e si chiedeva: Sono dunque così brutta, che nessuno mi ha desiderata, sinora?... —

Avrebbe vegetato così, sino alla vecchiaia?... La casa: la serva: l’ometto nerastro [p. 242 modifica] tossicchiante su fasci di compiti e pagine intonse di volumi: le lunghe letture in solitudine, velenose pel suo sangue come le atmosfere miasmatiche delle paludi: e i ricami a punto inglese e qualche rara, modesta serata nel salotto della vicina del primo piano....

Là, appunto, le era stato presentato l’uomo che pel primo le aveva detto: Non ho mai visto un biondo così dolce come quello de’ suoi capelli, signora.

L’uomo che pel primo le aveva detto: A nessuna donna ho tanto pensato nella mia vita, come a lei, signora.

L’uomo che pel primo le aveva dato un appuntamento: Lunedì, alle tre. Si fidi, si fidi di me....

· · · · · · · · · · ·

In piazza del Duomo potè, finalmente, balzare su un tram. L’orologio di faccia alla cattedrale segnava le due e cinquanta minuti.

Nel tram si tenne in piedi, aggrappata ad una cinghia. Il carrozzone, pieno zeppo, era impregnato dello specialissimo tanfo d’umanità sgocciolante, di troppi fiati al rinchiuso, di cuoi fradici, di membra in traspirazione, che hanno i tram nelle giornate di pioggia [p. 243 modifica] dirotta, e che dà la nausea e le vertigini. Fra un bracalone dalla bocca fetente di vino e una vecchia in cernecchi che portava in braccio un bambino moccioso, credette, ad un certo punto, premuta, soffocata, di mancare, di cadere.

L’istinto, più che la volontà, la sorresse. In corso Ticinese le colonne di San Lorenzo le apparvero attraverso il velo d’acqua: suonò, scese, fu in un balzo sul marciapiede, senza nemmeno trovar la forza di riaprir l’ombrello per difendersi dalla furia del maltempo.

E le giunse strana, quasi sconosciuta, la voce dell’uomo che, dal vano della porta d’un piccolo caffè, le era corso incontro; e l’uomo non le parve più quello.

— Laggiù c’è una vettura. Vieni.

Si sentì presa per un braccio, issata in una carrozza. Ma nella chiusa scatola di legno e cuoio umido tornò ad offender la malata sensibilità de’ suoi nervi quell’odore muffoso, insidioso, pesante, che già in tram le aveva dato il capogiro.

Il bel signore che le sedeva accanto e le cingeva la vita — il suo amante — l’accarezzava, tuttavia, con mani che sapevan di [p. 244 modifica] lavanda e d’ireos; e il suo respiro ricordava il fumo della sigaretta. Ma lo conosceva, poi?... Non lo aveva veduto che poche volte, non le era noto, di lui, che il nome. Viaggiava per affari, era scapolo.... Altro?... Nulla. Dove l’avrebbe condotta?... Nel suo appartamento?... Ma aveva un appartamento?... Forse vi avrebbe trovato molti tappeti, molte violette. Desiderò perdutamente un mazzolino di violette, da schiacciar sulla bocca e sulle narici, per non più soffrire di quel puzzo di fradicio che le penetrava nei pori, che le avvelenava il sangue.

Ma l’amante non aveva pensato a portarle un mazzolino di violette. Le bisbigliava nell’orecchio frasi inutili e sciatte:

— Carina!... Bellina!... Sei tutta umida, tremi di freddo. Perchè non hai preso una vettura uscendo di casa?... Hai male?... Scaldati le manine, qui, nelle mie.

Le dava del tu, senza preamboli, senza complimenti, come se non avesse mai fatto altro nella vita. La stringeva a sè con la sicurezza d’un padrone, più che con la passione d’un innamorato. Non gli aveva dunque mai visto quel mento duro, quelle spalle prepotenti, [p. 245 modifica] quelle mani accuratissime, ma tozze e cariche di anelli troppo brillanti?...

La brutalità del temperamento si rivelava nella nuca piena e corta, nel naso largo e sensuale; e il sorriso smagliante, che l’aveva stregata col bagliore d’una collana di diamanti nella vetrina d’un gioielliere, era fulgido, sì, ma fatuo.

La carrozza si arrestò in una via solitaria, non asfaltata, lontanissima dal centro della città. Gégé non vi aveva mai posto piede. Ed ecco, il piedino ben calzato nello stivaletto dal tacco sottile affondò, scendendo dal predellino, in una pozzanghera, fin sopra la caviglia. L’ira della pioggia continuava.

— Su, vieni. Dammi il braccio.

— Qui?... Entriamo qui?... è la casa?... è la.... vostra casa, questa?...

— Che bambina!... Io non ho casa. Vivo all’albergo. E all’albergo, sai, non si può.... è proibito. Non aver paura. Il posto è tranquillissimo. Entra al mio braccio. E non tremare, che diamine!...

Una piccola porta, un atrio chiuso ed oscuro. In faccia alla porta, una scala interna, di pietra: a destra, visibile da un uscio socchiuso, [p. 246 modifica] una sala di trattoria, dove pochi uomini bevevano e fumavano. La coppia salì.

— Una camera?... — chiese sottovoce un’ossequiosa cameriera vestita di nero, col floscio volto mascherato da un grottesco strato di cipria.

— Una camera — confermò la voce maschile, mentre la figurina imbacuccata nel mantello color d’ardesia, scossa da un tremito di febbre, col manicotto sulla bocca, avrebbe voluto sprofondarsi nel pavimento.

— Desiderano due caffè?... — chiese ancora l’ossequiosa cameriera, spalancando l’uscio d’una camera bassa, tappezzata di rosso, quasi interamente occupata da un enorme letto matrimoniale.

— Sì, due caffè. Ma presto, e bollenti.

Gégé rimase immobile, ritta contro il cassettone a specchiera, volgare come l’armadio, come la poltrona verde, coperta d’un pizzo a rete sfrangiato, come quel letto immenso, quel letto di tutti, d’un’impudicizia feroce nella luce del pieno giorno.

La donna mascherata di cipria bussò discretamente, entrò con gli occhi bassi, posò sul tavolino le due tazze fumanti in un vassoio, disparve. [p. 247 modifica]

— Bevi. Ti scalderà. Sembri una moribonda, povera piccola!...

Ella infatti batteva i denti, agghiacciata, quantunque il radiatore del calorifero fosse rovente.

Provò a bere; ma la bevanda nericcia le parve amarissima, disgustosa. Non capiva perchè lei fosse lì. Si chiamava Gianna Morgagni, abitava in una vera casa, via Cappuccini, numero quattordici. Non avrebbe mai potuto entrare in quel letto senza nome, sfacciato e promiscuo come la fossa comune. Ed era quell’uomo, quel signore al quale aveva dato il diritto d’umiliarla in tal modo, che trovava naturalissimo di averla condotta lì!... E non cercava nemmeno di stordirla con un po’ di carezze!... Aveva cominciato a svestirsi, lui, gettando soprabito e giacca a sghimbescio sulla spalliera d’una sedia, in fretta, senz’ombra d’esitazione, restando in bretelle turchine incrociate su una camicia a righe bianche e lilla. Lo stesso colore delle bretelle di suo marito. Lo stesso gesto di suo marito, ogni sera.... Si assomigliavano in quel momento, i due uomini: nella guisa che un ramo secco può assomigliare ad un tronco d’albero. [p. 248 modifica]

— Tu che fai dunque, bambina?... Su, da brava, spogliati. Oh, guarda, guarda, povero uccellino spaurito!... Vuoi che ti aiuti io?...

Le pose una mano sulla spalla, cercò d’attirarla a sè. Ma ella lo respinse, andò con uno stanco passo legato verso la finestra, senza parlare.

Sollevò una cortina: dai vetri sporchi il suo sguardo affondò in uno stretto cortile cinto di muraglie altissime, scure, corrose da una lebbra verdastra: un ignobile budello sul quale si aprivano ballatoi ingombri di luridume, di stracci e di scope. La pioggia senza tregua e senza fine s’accaniva inutilmente a lavare quella putredine.

Se avesse, d’impeto, spalancato i vetri e si fosse buttata giù?... Forse le sarebbe stato più facile che togliersi il velo, sganciare il mantello.

Ma due braccia robuste la trassero indietro, un bacio duro e vorace sulla bocca le ricordò che ella aveva, venendo, concesso un diritto, data una promessa, e doveva pagare.

E perdette ogni forza di resistenza. E fu destituita di se stessa, e fu simile alle donne dei postriboli. E quel letto pubblico fu per lei il [p. 249 modifica] fondo di una palude ove l’avessero gettata per annegarla. E quando si allontanò, sola, da quella casa, si sentì misera e sperduta come le donne che hanno dormito sui giacigli degli asili notturni.

Dal fondo della coscienza naufragante nell’ombra le veniva un’unica certezza: che quell’estraneo non lo avrebbe rivisto più, nè egli avrebbe cercato di rivederla.

Sola più che mai, ora e sempre. Sotto la furia inferocita del diluvio camminava alla ventura, senza cercare di ritrovar la via della casa. Ma aveva ancora una casa?... Le pareva d’esser randagia e nuda; e che la sua nudità fosse coperta di vergognose macchie; e che, malgrado l’oscurità crescente, tutti i passanti se la segnassero a dito.