Le solitarie/Confessioni/Un rimorso
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UN RIMORSO.
In una città straniera, sotto il denso frascame odoroso del chiosco d’un giardino d’albergo, mentre un’inquieta notte d’estate nascondeva le sue stelle dietro ondeggiare e palpitar di nuvole, io ebbi da una donna una confessione terribile.
Vi è per la confessione, come per l’amore, un dato momento psicologico. Io mi trovavo, per caso, in quel momento, accanto a quella donna. Forse, guardinga per necessità, da troppo tempo schiava del proprio segreto, ella preferì schiuder l’anima alla compagna d’un giorno, estranea alla sua famiglia, estranea al suo paese, e che l’indomani sarebbe scomparsa dall’orbita della sua vita.
Come e per quale occulta ragione di simpatia la donna avesse sbendata per me la sua piaga, non so. Ho voluto scordare il suo nome. Veniva dal sud; sarebbe ripartita fra tre o quattro giorni verso una celebre casa di cura per gli ammalati di esaurimento nervoso, posta al confine della Svizzera francese. Era sola con una cameriera giapponese che la serviva in silenzio colla docilità d’una schiava.
Mi si era attaccata con ardore di sensibilità morbosa: diceva che, quando i miei occhi la fissavano, ella si sentiva uscir l’anima dal petto. Certo era inferma di nervi. Avrò presente fin che vivrò la sua figurina tutta pallida nel tenue grigio delle vesti, nell’incerto grigio degli occhi, nell’oro stinto dei capelli infantilmente raccolti in due conchiglie sulle orecchie, nel fondo cinereo della tinta del viso, che intorno agli occhi sfumava in un alone violastro.
Povera di seno e di fianchi, parca di gesti e di parole, d’una timida e quasi paurosa grazia di movimenti, ella evocava in me l’immagine di quelle lettere d’amore delle quali il tempo ha reso pallido l’inchiostro e pressochè illeggibili i caratteri. Sono spente; ma qualcosa sopravvive in esse, tuttavia: il profumo, il mistero d’una storia vissuta.
Io avevo sentito il brivido di quel tormento; e stringevo contro di me la donna, per riscaldarla; ma non osavo scandagliare. Le parlavo, così, balzelloni, di tante cose. Nell’agile discorso scivolante dall’ultimo figurino di mode all’ultimo libro del poeta in voga, eravamo giunte, come succede assai volte fra donne, a toccare, a penetrare, a discutere i più singolari problemi di psicologia femminile. Cioè, io chiacchieravo e discutevo: ella si lasciava condurre, ponendo ogni tanto nel discorso qualche parola, che cadeva come una perla di vetro che s’infranga.
Quella notte, invece, parlò lei sola: sotto il chiosco in fondo al parco, guardando dall’ombra coppie di raffinata eleganza ballare, alla luce cadaverica delle corolle elettriche, l’one step nella galleria vetrata, si liberò in me del segreto che la faceva morire.
“— Io — cominciò a voce bassa — ho, laggiù nella mia casa, tre figli. Due, i maggiori, (poichè sembro ancor giovine tanto son esile, ma ho passato i quarant’anni) sono alti, robusti, larghi di spalle, coloriti in viso: somigliano a mio marito. Il terzo, l’ultimo — che non ha ancora sette anni — non è figlio di mio marito.„
Rabbrividì, si strinse nel mantello color di ferro, che al buio pareva nero.
“— Sapete bene come avvengono queste cose. Il marito è buono, è affezionato, lavora, guadagna denaro e denaro, e lo getta a profusione nel lusso di casa e nei gioielli della moglie. Ma non ha tempo di farle compagnia. Il denaro è una piovra che gli succhia tutte le ore. A pena ha il tempo di tornare a pranzo, sempre con qualche amico; poi v’è il circolo, e lo sport. Oh, perfetto, del resto.... Chi se ne potrebbe lamentare?... La moglie, oltre ai gioielli ed all’automobile, possiede anche la libertà, che è, dicono, il più prezioso bene della terra. Il male è che questa donna, proprio lei, non sa che farsene, della libertà. E resta sola in campagna, l’estate, perchè il marito non può abbandonare i suoi affari: s’intende. Sola coi bambini; ma i bambini vanno a passeggio con la governante: si sa. Un bel giorno ella è in balìa del primo venuto che non sia un imbecille e che le sappia dire una parola d’amore con una morbida voce esperta. Credete che lo ami?... Nemmen per sogno. Ascolta ed ama in quell’estraneo la propria giovinezza che non è ancor finita, un mistero di gioia che non le è forse ancora stato rivelato, il mutamento, il bisogno di sfuggire alla noia atroce di tutti i giorni, regolata dalle sfere dell’orologio, dalle visite ai conoscenti, dai pasti e dalle sieste dei bambini, e dall’arrivo della posta. Ama sè, in quell’estraneo.„
Sentii scricchiolare le falangi delle sue mani, intrecciate sulle ginocchia.
“— Ed ecco, mi accorsi che di quell’estraneo ero rimasta incinta.„
....L’one step continuava, nella galleria vetrata, il suo ritmo balzellante e voluttuoso. Quelle coppie non avrebbero dunque mai finito di ballare?... Danzavano, danzavano, corpo contro corpo, faccia contro faccia, mani ad artiglio sulle spalle: le dame con un sorriso incosciente diffuso nel volto, i cavalieri col collo insaccato negli omeri come esigeva il brutale ballo di moda, in null’altro dissimili dai teppisti che nell’impeccabile taglio della marsina, aperta sullo sparato abbagliante di bianchezza.
“— Il primo effetto della scoperta — continuò la dolorosa — fu di farmi comprendere, d’un lampo, la vanità del mio sentimento per quell’uomo. Chi era?... Perchè mi ero data a lui?... Che cosa rappresentava, lui, nella mia vita?... Era un gaudente, uno che passava, così, di corsa, sulla mia strada, per divertirsi. Ed io avrei dovuto mettere al mondo un bambino suo, capite, suo, del suo sangue, che sarebbe divenuto grande, che sarebbe divenuto un uomo. Ma avevo i miei ragazzi, io: mio marito, la mia casa. E ripetevo questi nomi cari, e ripensavo alle care consuetudini, folle di disgusto contro me stessa e contro colui. Le invincibili nausee che rendono così penosi i prodromi delle gravidanze mi rivoltavano stomaco e cuore insieme, fino allo spasimo. Sentii di odiare quell’uomo. Non lo avrei rivisto mai più. Gli scrissi due righe, violente, di congedo. Non osò nemmeno rispondere: forse non gli parve vero di cavarsela così a buon mercato. Da allora in poi la mia vita divenne una continua menzogna.
“Dovevo pur mentire, per non perdere i figliuoli, per non andarmene sola pel mondo colla creatura che mi doveva nascere. Lo comprendete anche voi, non è vero?... E i mesi passarono; ed io imparai, anche, ad abbandonare con fiduciosa grazia il corpo appesantito dall’avanzata maternità al braccio di mio marito. Il mio stato lo aveva commosso, lo aveva riavvicinato a me con la confidenza dei primi anni di matrimonio. Discutevamo insieme sul nome da dare al piccolo che era per via. Egli voleva una bimba. — Dopo due maschiotti, capirai!... — diceva. Io no, non la volevo. È troppo orribile nascere donna, portare in noi per tutta la vita, come un male inguaribile, la fatalità della nostra debolezza.
“Enrico trascurava ora, un poco, gli affari e i cavalli, per me. Lo divertiva, lo lusingava il pensiero di diventar nuovamente papà d’una creaturina tutta fresca, mentre due grandi e turbolenti ragazzoni gli arrivavan già quasi alle spalle. Nacque un maschio, qualche settimana prima (per mio marito) del termine normale. Lo allattai io stessa; e il periodo dell’allattamento fu come la tregua di Dio. La placida serenità della funzione animale aveva potuto assopire in me l’inquietudine, il rimorso: per null’altro ero vivente se non per la gioia di sentire il mio sangue trascorrere, attraverso i capezzoli dolcemente succhiati, nelle vene di quell’altra mia carne staccata da me. Ma, crescendo, il bimbo cominciò a guardarmi cogli stessi occhi bruni del suo vero padre, a sorridermi col sinuoso e facile sorriso del suo vero padre. La fisionomia scacciata dal mio ricordo ritornava nel figlio, affermandosi, scolpendosi sempre più nettamente. Persino certi gesti, certe inflessioni di voce!... Un’occhiata, una frase, un atteggiamento bastava a far balzare dinanzi a me l’immagine dell’altro, e il mio peccato e la mia frode. Col tempo, ebbi paura di qualche sospetto nell’animo di mio marito: nulla. Lo adora, lui, il suo Baby. E i due figli maggiori fanno a gara con lui nel viziarlo, nel dargliele tutte vinte; e il bellissimo fanciullo ne approfitta con morbido egoismo: con quell’irresistibile egoismo a zampa di velluto che tanto lo rende simile al suo vero padre, e ne farà, un giorno, un gaudente come lui.
“Uno che ruba si mette sotto processo e si condanna al carcere, non è vero?... Ebbene, io ho rubato a mio marito ed ai miei figli maggiori: affetto, nome, parte del patrimonio, stato civile, insomma!... Sono una ladra. Sta il fatto che, non per avere avuto un amante, ma per essere divenuta madre, io sono una ladra. Ma volevo io, forse, avere un figlio?...„
Quest’ultima frase, quantunque a voce sorda, fu quasi singhiozzata; e cinque dita contrattili attanagliarono il mio polso, penetrando nella carne.
Nell’ombra lievemente rotta dai lontani riflessi delle lampade elettriche, il piccolo volto perdeva ogni morbidezza di contorno per non conservar che la linea essenziale, una linea di dolore disperato.
“— Molte volte ho pensato di confessar tutto a mio marito, e poi di andarmene col bambino. Ma non ne ho mai avuto il coraggio. Enrico è così buono, così lontano da ogni dubbio, così pieno di tranquilla fiducia!... Torna a casa, stanco, dall’ufficio o dalla Borsa: la sua gioia, il suo riposo siamo noi. Non parla più di circolo nè di sport, ora che c’è il piccino. Guai se Baby non gli corre incontro quando rientra!... Confessare sarebbe ucciderlo moralmente, e scardinar la famiglia. E poi, io gli voglio bene. Gli ho sempre voluto bene, anche quando lo stordimento della passeggera passione m’invase come la nebbia invade talvolta, all’improvviso, valle e montagna, fitta in modo che le campane non si sentono più.... Come faccio?... Mi rinfranco con mille cavilli. Penso che tante donne, nel mio caso, vivono senza rimorsi. Che ogni creatura ha diritto al suo posto nel mondo. Che questo fanciullo, infine, crescerà, farà di sè quel che vorrà, andrà forse lontano, fonderà la propria famiglia in nuove terre. Il nome?... L’hanno inventato gli uomini, il nome.... E vado avanti come posso, mentendo per necessità ad ogni ora del giorno. La menzogna è divenuta, naturalmente, una camicia invisibile che mi sta attaccata alla pelle. Un cilicio, piuttosto. Poichè questo è il terribile, che io non ho bisogno di parlare per mentire. Potessi farlo!... Mi stordirei, attingerei coraggio dalle mie stesse parole. Ma no: io mento vivendo.
“Ora son qui per ordine dei medici. Non mangio, non dormo quasi più. Mi par d’essere avvelenata. Mi pare che un’atmosfera d’isolamento mi separi dalle altre donne.
“La vista del bambino mi è divenuta insopportabile; anche quella degli altri figliuoli....
“Quando i medici lo permetteranno, Enrico mi raggiungerà. Solo. Chi sa!... In un paese straniero, in una quieta villa fra il verde, noi due, cuore su cuore, come nei primi tempi, quando i bambini non c’erano ancora.... Credete che io possa ritrovare la forza di vivere?... Credete che l’esistenza si possa ricominciare?... — „
....Tacque; e tacque di colpo anche la musica. Parve che alla domanda volesse rispondere il silenzio. Nè io rammento ciò che le dissi qualche minuto dopo. Parole vane: parole che volevano essere di convincimento, ma non eran che di pietà.
Ci ritirammo; e quattro giorni dopo ella partì; ed io non ne seppi più nulla. Se la rivedo nella memoria, penso che mai la morte comporrà in pace con più benefiche mani un più tormentato cuore.