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160 confessioni


patia la donna avesse sbendata per me la sua piaga, non so. Ho voluto scordare il suo nome. Veniva dal sud; sarebbe ripartita fra tre o quattro giorni verso una celebre casa di cura per gli ammalati di esaurimento nervoso, posta al confine della Svizzera francese. Era sola con una cameriera giapponese che la serviva in silenzio colla docilità d’una schiava.

Mi si era attaccata con ardore di sensibilità morbosa: diceva che, quando i miei occhi la fissavano, ella si sentiva uscir l’anima dal petto. Certo era inferma di nervi. Avrò presente fin che vivrò la sua figurina tutta pallida nel tenue grigio delle vesti, nell’incerto grigio degli occhi, nell’oro stinto dei capelli infantilmente raccolti in due conchiglie sulle orecchie, nel fondo cinereo della tinta del viso, che intorno agli occhi sfumava in un alone violastro.

Povera di seno e di fianchi, parca di gesti e di parole, d’una timida e quasi paurosa grazia di movimenti, ella evocava in me l’immagine di quelle lettere d’amore delle quali il tempo ha reso pallido l’inchiostro e pressochè illeggibili i caratteri. Sono spente; ma