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Un rimorso | 165 |
mesi passarono; ed io imparai, anche, ad abbandonare con fiduciosa grazia il corpo appesantito dall’avanzata maternità al braccio di mio marito. Il mio stato lo aveva commosso, lo aveva riavvicinato a me con la confidenza dei primi anni di matrimonio. Discutevamo insieme sul nome da dare al piccolo che era per via. Egli voleva una bimba. — Dopo due maschiotti, capirai!... — diceva. Io no, non la volevo. È troppo orribile nascere donna, portare in noi per tutta la vita, come un male inguaribile, la fatalità della nostra debolezza.
“Enrico trascurava ora, un poco, gli affari e i cavalli, per me. Lo divertiva, lo lusingava il pensiero di diventar nuovamente papà d’una creaturina tutta fresca, mentre due grandi e turbolenti ragazzoni gli arrivavan già quasi alle spalle. Nacque un maschio, qualche settimana prima (per mio marito) del termine normale. Lo allattai io stessa; e il periodo dell’allattamento fu come la tregua di Dio. La placida serenità della funzione animale aveva potuto assopire in me l’inquietudine, il rimorso: per null’altro ero vivente se non per la gioia di sentire il mio sangue trascorrere,