Le seduzioni - Le vergini folli/Prefazione

Giuseppe Antonio Borgese

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Le seduzioni - Le vergini folli Le seduzioni
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UNA POETESSA


Saffo dalle chiome di viola. Chi se l’immagina rediviva? I secoli l’hanno circonfusa in una nebbia leggendaria di ardente impurità. Immaginate dunque il suo spirito riemerso dall’onda Egea, trasmigrato verso un’ansimante metropoli moderna, vestito un’altra volta di membra giovanili e di panni che non ondeggiano intorno al libero corpo, come il peplo della fanciulla greca, ma lo stringono dentro una morbida guaina, come la moda di Parigi comanda. Non passeggia, circondata di alunne e coronata di fori, sul margine delle rupi ascoltando il singulto del mare, ma solitaria e frettolosa, sepolta nell’ombra dell’immenso cappello piumato, sguscia nel trambusto crepuscolare della città rosseggiante sotto le lampade appena accese, prestando orecchio al confuso romorio delle cupidigie che si risvegliano nell’ombra. Brutta, come Giacomo Leopardi la pensò, ed amorosa della morte perchè respinta da un crudele Faone? No. Leopardi cercava ingenerosamente, per consolarsi, una compagna della sua miseria. Se gli occhi foschi [p. vi modifica] e profondi di Saffo rediviva sogguardano dalle palpebre reclini, tutta la figura s’accende in un improvviso lampo di bellezza. Ma, se in fantasia l’accecate, se per un momento la considerate come una statua diserta dalla luce della sua passione e del suo dolore, ecco vi sorprende in quella femminilità non so che di troppo rude e mascolino ed aspro. Forse troppo larghe e potenti le mascelle, forse troppo secca e diritta la sagoma dall’occipite al tallone e troppo lunghe le dita ed un po’ roca, come per un fremito perenne, la voce. Bella, ma di una bellezza aspra e funesta; immagine di nemica formidabile sebbene inerme, che soffre ella medesima della sua ostile solitudine, ma pur non sa piegarsi, e non vuole, ad amare come gli uomini vogliono essere amati. Abbandonandosi, tninaccia; abbracciando, respinge. Ha un sorriso di felicità che sembra ghigno di scherno; se promette la fedeltà la sua promessa trema sulle labbra con la febbrile vibrazione della colpa. Non nasconde uno stiletto nella manica sinistra? E Faone non l’ama, quantunque ella lo cerchi con smisurato ardore. Ha paura. Non dello stiletto, ma dell’ardore con cui la donna l’ama. Preferisce le facili galanterie o i sonnolenti vincoli matrimoniali a questo vortice di fiamma, ove l’anima sua s’incenerirebbe. Passa oltre, desiderando e tremando. E passa oltre anche Saffo, non per osare il salto suicida dalla rupe di Leucade, ma per cantare, irridendo, un canto di selvaggia sfida e di crudele impudicizia. [p. vii modifica]

Io non so, nè credo che a questa immaginazione corrisponda la persona di Amalia Guglielminetti. Io parlo della sua poesia. In una incredibile concentrazione fantastica, questa fanciulla ha vissuto la vita della peggiore femmina moderna; amante, attrice, adultera, cortigiana. Essa ha letto, al chiarore perverso d’una lampada incerta, i grandi romanzi francesi.

Romanzi letti con anima piena
di febbre, a notte, mentre in ombre il lume
ripeteva negli angoli ogni scena.

L’amata emersa dalle trine a spume
e l’amante a’ suoi piedi, ebbro di lei,
si sprigionavan molli dal volume.

Illanguidiva i suoi grand’occhi rei
smaniosa d’amar la Bovary,
o con la barba a punta e con i bei

denti rideva fatuo Bel-Ami.


Ed ecco la lettrice si trasfigura in protagonista. Che cos’è la donna vera e vivente? Una costola strappata dal fianco di Adamo. Essa è la materia plastica, nella quale la volontà mascolina si foggia la figura visibile del suo desiderio. Ester, Medea, Alceste, Lalage, Beatrice, Laura, Francesca. Ogni grande poeta ha fabbricato nella solitudine del suo sogno il simulacro dell’amore e della bellezza, perchè le donne viventi gli s’affollassero con ansia dintorno imitandone le fogge ed i modi. Sanguinaria e frodolenta [p. viii modifica] affermatrice del sesso e della razza nei libri biblici, crudele dominatrice, “urna di tutti i mali„, nella primitiva immaginazione greca, sale o decade alla funzione di schiava domestica in Roma, che fila la lana incuriosa degli intellettuali splendori in cui folgoreggiano le venali nipoti di Aspasia. Le figure contraddittorie della superdonna, della sposa e della cortigiana s’incrociano ancora indecise nell’antica poesia, ma le letterature moderne si dividono nettamente il compito. Sorge in Italia la donna angelicata, la radiosa creatura di perfezione che “al ciel conduce„, e si chiama Beatrice, ma subito dopo s’umanizza alquanto in madonna Laura. Rimane ai tedeschi l’eredità di Giuditta, di Medea, perchè l’indomabile e perfida eroina rinasca nella Crimilde dei Nibelunghi e seicent’anni dopo generi un’intera prosapia di meravigliose criminali nell’opera di Hebbel e di Ibsen, cui non da lontano somiglia quella di Wagner. La pura e devota compagna dell’uomo soffre tessendo corone di disperata fedeltà nel dramma e nel romanzo inglese; mentre la letteratura francese, sviluppando l’esile germe che Catullo aveva deposto nelle sue tenere ed irose odicine a Lesbia civetta e bugiarda, dimentica le sottili smancerie di Gianfredo Rudel, seppellisce le taciturne e pazienti compagne dei paladini, ed elabora alla perfezione quella che per antonomasia si chiama la donna moderna: quella che Molière inventò in dimena per vendicarsi della moglie, quella che si chiama Jacqueline [p. ix modifica]in De Musset e Michelle de Burne in Maupassant, che percorre col nefasto fruscìo delle sue sete la scena di mille drammi e di mille romanzi e strappa come gocce di sangue le rime al cuore di venti poeti lirici. Questa donna non ha ancora trent’anni, ma li ha quasi, è ricca ed ha un marito ricco, non è bella, ma splende di una grazia irregolare e capricciosa non ama, ma si dà; non abbandona, ma tradisce. Non sposa e non cortigiana, non dominatrice nè schiava, ma semplicemente anarchica, essa è la donna libera nella famiglia costituita, la creazione pili singolare della Francia, un incomparabile strumento di piacere, un inimitabile oggetto di lusso, un detestabile arnese di tortura. Bergeret l’ha chiamata “la parigina„. Essa è parigina di nascita ed è il segreto e palese tormento di tutte le provinciali, francesi od italiane che siano.

Quando le donne si riconobbero in madonna Laura, ne vennero fuori i sonetti di Vittoria Colonna e di Gaspara Stampa; quando si riconobbero nelle candide spose shakespeariane, germogliarono le rime di Elisabetta Barret-Browning. Ma nessuna ebbe il coggio di proclamarsi l’eguale di Beatrice Portinari.

Ci voleva troppo orgoglio. E nessuna fin’oggi aveva osato di foggiare la sua femminilità secondo il modello della Parigina di Becque. Era anche più arduo, perchè l’orgoglio non bastava senza un’inconcepibile dose di umiltà, essendo la donna francese una creatura dell’amore e del disprezzo degli uomini. [p. x modifica]

Ecco ora Amalia Guglielminetti. La protagonista di Notre cœur ma più sensuale ed ardente, è uscita dalle pagine del romanzo, è divenuta poetessa, si canta e si confessa da sè, quale Guy de Maupassant invano l’amò. Poetessa di qual valore? Evitatemi la pena di tentare una comparazione. Costei è un’artista di tale strepitosa forza che bisogna lasciarla sola.

Le Seduzioni sono il romanzo autobiografico di questo tipo ideale di donna moderna. Romanzo senza intreccio; tutto quanto di momenti psichici, fissati in una settantina di strofe, ciascheduna di tredici versi ordinati in terzine.

La protagonista vive nel suo sogno di folle giovinezza, solitaria e superba, senz’altra gioia fuor di quelle che ad ogni ora le finge la sua voluttuosa immaginazione. Non vale piangere, v’è la Giovinezza, sua unica amica che l’accompagna e la consola.


Tenti la lode e mormori: — Sei bella!
e scherzi: — Hai sui capelli una corona...
e m’accarezi come una sorella

finch’io non ti sorrida: — E tu sei buona!


Altre volte ella ha cantato pene d’amore, nei Canti della Giovinezza, nelle Vergini Folli, che attraverso l’aspra fatica del sonetto, in cui l’alunna di Vittoria Alfieri tormentava la sua cocciuta libertà subalpina desiderosa di classici freni, trasparivano i primi segni della futura perfezione. Aveva cantato la sua pura passione. [p. xi modifica]

Io piangevo così note d’amore
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore

e non s’avvede che nessun l’ascolta.

Ora non più; non più l’amore, ma l’indifferente ed ostile desiderio. La Primavera l’ha guarita:

Scossi da me l’antico e il nuovo danno
e balzai, folle di desii fugaci,
incontro al riso d’ogni bell’inganno:

gli risi coi notturni occhi: — Mi piaci!

Conosce ora il fascino degli occhi ignoti, che abbagliano con un vorace sguardo, conosce la gioia di mutare il vecchio laccio corroso con un nuovo laccio di fiori, e gli sguardi che son “come mani d’amanti, indugianti ignude entro un tesoro di feminee chiome” e il silenzio adescante dei parchi solitarii e la tentazione delle gemme esposte nelle vetrine abbarbaglianti. Conosce la mano virile “lenta in ogni suo gesto, ma febbrile nella carezza quasi da far male” e l’ebrietà dei profumi e la mollezza dei frutti rari e la frenesia del lusso e la soavità delle morbide stoffe iridate:

So l’ombra delle piume in cui la faccia
s’imbianca d’un languor di passione
in cui la bocca bella, benché taccia,

parla parole di seduzione.

Sente il calore soffocato delle voci che chiamano dall’ombra, l’oscura nostalgia delle sere cittadine, il [p. xii modifica]piacere di sferzare l’orgoglio dell’amante, l’impura gioia di concedersi per carità. Ecco, una donna incrocia col passo lento dei due amanti la sua rapidità leggera, e li saetta di sotto il ciglio basso. Egli segue con l’occhio e col desiderio la passante, ed esclama: Com’è bella! Essa lo lascia di scatto con un gran riso “d’ilare odio e di pietà beffarda„. Conversazioni astiose, congedi improvvisi, paci torbide, gelosie iraconde, menzogne voluttuose, capricci malvagi, avventure sans lendemain, ansie per la giovinezza che fugge, ricordi trepidi della purità conventuale, convegni notturni e letture proibite, desiderii dell’ignoto e languide convalescenze, segreti intimi e sogni inconfessabili: tutto il triste ed arido ed infecondo arrovellio d’una bella donna senza religione e senza cuore passa fissato in quadri di un’accecante intensità e d’una stupefacente bellezza d’arte:

Io non so chi tu sia: so che una sera
noi ci gettammo l’anima negli occhi
con l’impeto di chi brama e noti spera.

La ripigliammo cauti, quasi tocchi
da un dubbio, e ancora la scagliammo a segno
come la freccia cui convien che scocchi.

Senza accostarci, senza altro disegno
che quello di guardarci ebbri d’amore,
ma disgiunti da un qualche aspro ritegno.

Così il male durò. Più. tentatore
d’allora, a tratti, il tuo volto m’abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore,

desiderio di te me lo attanaglia.

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Mi dispiace il verso, retorico e convenzionale, che ho sottolineato; ma, nel rimanente, la passione convulsa è costretta dentro argini di tale granitica solidità, che i poeti, non le poetesse, son pregati d’imitare, se sanno. E così è tutto il resto; quando la protagonista legge l’ultima lettera d’amore:

Balenati lampi nelle ciglia chine
della lettrice, è quando un mal represso
desio irrompe in parole ebbre alla fine,

ella ne freme come d’un amplesso;

e quando nelle vie crepuscolari segue, quasi invidiando, la cortigiana imbellettata; e quando ripensa alle glorie ed agl’innumeri amori delle attrici, e quando, deridendo un corteggiatore troppo timido, riepiloga in quattro versi adamantini il suo glaciale disprezzo per se medesima e per il suo sesso:

Ciascuna donna è come una via nuova
che alcun percorra in notte senza luna:
molte sorprese il passegger vi trova;

ma le affronta affidato alla fortuna.

Pari e patta: anche una donna può considerare gli uomini come vili strumenti di piacere:

Poichè, se alcun le sue treccie ha disfatte
od impresse d’un morso la sua gola,
lasciò le sue labbra più scarlatte,

ella è pur sempre quella che va sola.

[p. xiv modifica]

Con questa feroce dichiarazione si conchiude il poema. Al quale seguono taluni sonetti, più duri, più faticosi, meno precisi, lampeggianti anch’essi di tali bellezze che basterebbero da soli a rivelare un artista di prim’ordine; ma che, pubblicati in coda al poema, impallidiscono. Viceversa, non vale la pena di accennare alle strofe deboli e sbagliate che s’incontrano qua e là come isole di pigrizia in questo lucido fiume di poesia. Trapiantate in un mediocre volume di versi, le cose brutte della Guglielminetti vi farebbero esclamare balzando dalla seggiola: c’è qualcuno qui dentro.

Annie Vivanti? Ma Annie Vivanti scherza col peccato, e si diverte un mondo a piroettare con biricchina indecenza per scandalizzare i seminaristi. Annie Vivanti è licenziosa; ma l’impudicizia della Guglielminetti è rigidamente vereconda. Perchè la corruzione fatta d’immaginazione più che di costume, e non di costume, è tragica, non è frivola. Annie Vivanti somiglia ad Olindo Guerrini; Amalia Guglielminetti somiglia alla cupa sensualità di d’Annunzio. Intendiamoci bene: somiglia a d’Annunzio per la materia. Ha letto l’Intermezzo, il Trionfo, la Laus Vitae (ricordate? “altre, pallide e lasse, — riarse d’amore sino — alle midolle — perdute il cocente — viso entro le chiome — con le nari come — inquiete alette, — con le labbra come — parole dette, — con le palpebre come — le violette„). Anch’ella adora le quattro divinità celebrate nella Laus: [p. xv modifica]Volontà, Voluttà, Orgoglio, Istinto. E nessun’altra. Gli somiglia pure nella forma, perchè la Guglielminetti, italianissima e classicissima, così classica che pare impossibile in una donna tanta precisione d’immagine, di parola e per fin d’ortografia, si ricollega al più recente maestro. Ma gli somiglia, a mo’ d’esempio, come d’Annunzio somiglia a Carducci: per parentela di discepolo a maestro, non per identità d’imitatore a modello. La sua vorticosa originalità ha inghiottite ed eliminate tutte le influenze. E ne è balzato alla luce un miracolo di poesia.

La forma del verso, del periodo, della terzina è, se volete, un po’ troppo generica ed accademica; perfin troppo perfetta. Questa è la principale colpa della Guglielminetti. Ma l’anima che vi spira dentro è tutta sua e tutta nuova: l’amarezza del piacere, il fremito penoso del desiderio instancabile, la fosca penombra del sogno illecito non trovarono mai una espressione così austera nella sua impudicizia, così solenne nella sua futilità. Verranno i moralisti e le caste amiche a lamentarsi che tanto ingegno non sia messo al servizio del pudore e non produca libri da additarsi a modello di “composizione italiana„ negli educandati. La Guglielminetti non perderà il tempo a rispondere che la lascivia pornografica e ridanciana può essere indegna dell’arte, non la lascivia passionale, che, essendo dolorosa, esce purificata dalle sue stesse fiamme. Non ripeterà l’oziosa autodifesa di Marziale: lasciva nobis pagina... — i nostri scritti [p. xvi modifica]sono impudichi, la nostra vita è pura —; poichè l’opera d’arte dev’essere accettata o respinta com’opera d’arte, e non malignamente travisata in un documento autobiografico.

Essa è ben degna di riconoscere se medesima e di percorrere la sua via.

G. A. Borgese.


Da «La Vita e il Libro». Editore Bocca. Torino.