Le piacevoli notti/Notte IX/Favola IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Notte IX - Favola III | Notte IX - Favola V | ► |
FAVOLA IIII.
Se noi, piacevoli donne, volessimo, con quella diligenzia che si conviene, prudentemente cercare quanto grande sia il numero di sciocchi e d’ignoranti, con assai agevolezza trovaressimo essere innumerabile; e se più oltre volessimo conoscere i diffetti che dalla ignoranza procedeno, andiancene dalla isperienza, di tutte le cose maestra, ed ella, come madre diletta, il tutto ci dimostrerà. Ed acciò che noi non ce ne andiamo con le mani, come volgarmente si dice, piene di mosche, dicovi che da lei, tra gli altri vicii, nasce uno che è la superbia, fondamento di tutti e mali e radice d’ogni umano errore; per ciò che l’uomo ignorante si presume sapere quel che non sa, e vuole apparere quel che non è: sì come avenne ad un prete di villa, il quale, presumendosi esser scienziato, era il maggior ignorante che mai la natura creasse. Ed ingannato dalla falsa sapienzia sua, rimase della facoltà e quasi della vita privo: sì come per la presente novella, la qual forse ancora intesa avete, a pieno intenderete.
Dicovi adunque che nel territorio di Brescia, città assai ricca, nobile e popolosa, fu, non già molto tempo fa, uno prete, il cui nome era Papiro Schizza; ed era rettore della chiesa della villa di Bedicuollo, non molto discosta dalla città. Costui, che era essa ignoranza, faceva il literato, e mostravasi con ogni uno esser gran sapiente; e quelli del contado assai volontieri il vedevano, onoravano, e di molta dottrina l’estimavano. Avenne che dovendosi il giorno di San Macario in Brescia celebrare una divota e solenne processione, il vescovo fece fare un espresso comandamento a tutti i chierici sì della città, come di villa, che sotto pena di ducati cinque dovessero, con cappis et coctis venir ad onorare la solenne festa, sì come ad un tanto divoto santo si conveniva. Il nunzio del vescovo, andatosene alla villa di Bedicuollo, trovò messer pre’ Papiro, e fecegli il comandamento, da parte di monsignor lo vescovo, che sotto pena di ducati cinque il giorno di San Macario la mattina per tempo si trovi a Brescia nella chiesa catredale cum cappis et coctis, acciò che egli cogli altri preti onori la solenne festa. Partito che fu il nunzio, messer pre’ Papiro cominciò tra se stesso pensare e ripensare che dir volesse ch’ei venisse a tal solennità cum cappis et coctis. E discorrendo su e giù per casa, ruminava con la dottrina e sapienzia sua, se per aventura poteva venir in cognizione delle predette parole. Or avendo lungamente pensato sopra questo, finalmente gli occorse nell’animo che cappis et coctis non significasse altro che capponi cotti. Onde, fermatosi nella sua bestial intelligenza, senza aver l’altrui consiglio, prese due paia di capponi, e degli migliori, e alla fante ordinò che diligentemente li cucinasse. Venuta la mattina sequente, pre’ Papiro nell’aurora montò a cavallo: e fattisi dare in un piatto i capponi cotti, a Brescia li portò; ed appresentatosi dinnanzi a monsignor lo vescovo, li diede i capponi cotti, dicendoli che dal suo nuncio gli era stato commesso, ch’egli venisse ad onorar la festa di San Macario cum cappis et coctis, e per sodisfare al debito suo egli era venuto, e seco portato aveva i capponi cotti. Il vescovo, che era prudente ed astuto, veduti i capponi grassi e ben arrostiti, e considerata la ignoranzia del prete, strinse le labbra e s’astenne dalle molte risa; doppo con faccia gioconda accettò i capponi, e resegli mille gratis. Messer pre’ Papiro, udite le parole del vescovo, per la sua grossezza non le comprese; ma tra se stesso pensò che il vescovo li richiedesse mille fassa di legna. Laonde l’ignorantazzo, gettatosi a’ piedi del vescovo, con le ginocchia a terra, disse: Monsignor mio, vi prego per lo amor che portate a Iddio, e per la riverenzia che io vi porto, non vogliate imponermi tanta gravezza, perciò che la villa è povera, e mille gratis è troppo gran carico a così bisognoso luoco; ma accontentativi di un cinquecento, ch’io li manderò più che volontieri. Il vescovo, quantunque fusse giotto ed astuto, non però comprese quello che dir voleva il prete; ed acciò che non paresse, come egli, ignorante, si achetò al voler suo. Il prete, fornita la festa, e presa buona licenza e la benedizione dal vescovo, a casa ritornò. E tantosto ch’aggiunse a casa, trovò i carri, e fece caricare le legna; e la mattina sequente al vescovo le mandò appresentare. Il vescovo, vedute le legna ed inteso chi era il mandatore, assai s’allegrò e molto volontieri le ricevette. Ed in tal maniera il grossolone, persistendo nella sua ignoranza, con suo disonore e danno perdè i capponi e le legna. — Avenne, dopò non molti giorni, che nella predetta villa di Bedicuollo trovavasi un contadino, detto per nome Gianotto, il quale, quantunque fosse uomo di villa e nè leggere nè scrivere sapesse, era nondimeno tanto amatore de gli virtuosi, che servo in catena si sarebbe fatto per loro amore. Costui aveva uno figliuolo di buon aspetto, che dimostrava chiaro segno di divenir scienziato e dotto: il cui nome era Pirino. Gianotto, che cordialmente amava Pirino, determinò di mandarlo in studio a Padova e non gli lasciare cosa alcuna, che ad uno studioso appartiene, mancare; e così fece. Passato un certo tempo, il figliuolo, assai ben fondato nell’arte della grammatica, tornò a casa: non già per rimpatriare, ma per visitare e parenti e gli amici suoi. Gianotto, desideroso dell’onor del figliuolo e volendo sapere s’egli faceva nel studio profitto, determinò d’invitare e parenti e gli amici e fargli un bel desinare, e pregar messer pre’ Papiro che in presenza loro l’esaminasse, acciò che vedessero se egli perdeva il tempo in vano. Venuto il giorno dell’invito, tutti e parenti e gli amici, secondo l’ordine dato, si ridussero a casa di Gianotto; e fatta la benedizione per messer lo prete, tutti, secondo la loro maggioranza, sederono a mensa. Finito il desinare e levate le tovaglie, Gianotto si levò in piede, e disse: Messere, io volentieri vorrei, tuttavia piacendovi, che voi essaminaste Pirino mio figliuolo, acciò che noi vedessimo se egli è per far frutto o no. A cui messer pre’ Papiro rispose: Gianotto, compare mio, questo è poco carico a quello che io vorrei far per voi, perciò che quello, che ora mi comandate, è una cosa minima alla sofficienza mia. E voltato il viso verso Pirino, che a dirimpetto sedeva, così disse: Pirino, figliuol mio, noi siamo qua tutti raunati ad uno istesso fine, e desideriamo l’onor tuo, e vogliamo sapere se tu hai ben dispensato il tempo nel studio di Padova. Onde, per sodisfamento di Gianotto tuo padre e per contento di questa onorevole brigata, noi faremo un poco di essaminazione sopra le cose che hai imparato a Padova; e se tu ti porterai, sì come noi speriamo, valorosamente, tu darai a tuo padre e a gli amici e a me consolazione non picciola. Dimmi adunque, Pirino, figliuolo mio: come si addimanda latinamente il prete? Pirino, ch’era ottimamente instrutto nelle regole grammaticali, arditamente rispose: Praesbyter. Papiro, udita la presta e pronta risposta datagli da Pirino, disse: E come praesbyter, figliuol mio? Tu t’inganni di largo. Ma Pirino, che sapeva che diceva il vero, affermava audacemente, quello che risposto aveva, esser la verità; e provavalo con molte auttorità. Dimorando l’uno e l’altro in grandissima contenzione, nè volendo pre’ Papiro ciedere all’intelligenzia del giovane, voltossi verso coloro che a mensa sedevano, e disse; Ditemi, fratelli e figliuoli miei: quando nel tempo di notte vi occorre alcuno caso che sia d’importanza, come di confessione, di comunione o di altro sacramento che è necessario alla salute dell’anima, non mandate subito al prete? — Sì. — E che fate voi prima? Non picchiate a l’uscio? — Certo sì. — Dopo non dite voi: presto, presto, messere, levatevi su e venete presto a dar i sacramenti ad un infermo che se ne more? I contadini, non potendolo negare, confermavano così essere il vero. — Adunque, disse pre’ Papiro, il prete latinamente non si dice praesbyter, ma prestule, perchè egli presto viene a sovenire all’infermo. Ma voglio che questa prima volta ti sia sparamiata. Ma dimmi, come si addimanda il letto? Pirino prontamente rispose: Lectus, thorus. Udendo pre’ Papiro cotal risposta, disse: O figliuol mio, tu sei in grand’errore, e il tuo precettore ti ha ensegnato il falso. E voltatosi verso suo padre, disse: Gianotto, quando voi venete dalla campagna a casa stanco, dopo che avete cenato non dite voi: io voglio andar a riposare? — Sì, rispose Gianotto. — Adunque, disse il prete, il letto reposorium si chiama. Il che tutti ad una voce confermarono esser il vero. Ma Pirino, che si faceva beffe del prete, non osava contradirgli, a ciò che i parenti non s’adirasseno. Or seguendo, pre’ Papiro disse: E come s’addimanda la tavola sopra la quale si mangia? — Mensa, rispose Pirino. All’ora pre’ Papiro disse a tutta la brigata: Deh, come Gianotto malamente ha speso il suo danaro e Pirino il tempo! perciò che egli è nudo degli vocaboli latini e delle regole grammaticali, per ciò che la tavola dove si mangia s’addimanda gaudium, e non mensa, perchè di quanto l’uomo sta a tavola, sta in gaudio e allegrezza. A tutti che vi erano presenti parve questo molto di laude degno: e ogni uno comendò assai il prete, tenendolo dottrinato e scienziato molto. Pirino a suo malgrado era astretto a ciedere alla ignoranza del prete, perchè gli era da’ propri parenti troncata la strada. Pre’ Papiro, che vedevasi esser da tutti i circonstanti sì degnamente laudato, si pavoneggiava; e alciata alquanto maggiormente la voce, disse: E come s’addimanda la gatta, figliuol mio? — Felis, rispose Pirino. — O caprone, disse il prete; ella s’addimanda saltagraffa: per ciò che quando se le porge il pane, ella subito salta, e con la zatta s’attacca, graffa e poi se ne fugge. Stavano gli uomini della villa ammirativi, e con attenzione ascoltavano le pronte proposte e risposte che il prete faceva, e dottissimo il giudicavano. Ritornato il prete da capo all’interrogazione, disse: E come si chiama il fuoco? — Ignis, rispose Pirino, — Come ignis? disse il prete; e voltatosi alla compagnia, disse: Quando, fratelli miei, voi portate la carne a casa per mangiarla, che ne fate voi? non la cucinate? Tutti risposero di sì. — Adunque, disse il valente prete, non si addimanda ignis, ma carniscoculum. Ma dimmi, Pirino mio, per la tua fè, come si chiama l’acqua? — Limpha, rispose Pirino. — Ahimè, disse pre’ Papiro; che dici tu? Bestia andasti a Padova, e bestia tornasti. E voltatosi alla compagnia, disse: Sappiate, fratelli miei, che la esperienza è maestra di tutte le cose, e che l’acqua non s’addimanda limpha, ma abondantia: per ciò che, se voi andate a i fiumi per attinger l’acqua o per abbeverare gli vostri animali, l’acqua non vi manca, e però dicesi abondantia. Gianotto stavasi come insensato ad ascoltare, e dolevasi della perdita del tempo e di danari mal spesi. Vedendo pre’ Papiro Gianotto star di mala voglia, disse: Vorrei solamente saper da te, Pirino mio, come si addimandano le ricchezze, e poi mettemo fine alle nostre interrogazioni. Rispose Pirino: Divitiae, divitiarum. — O figliuolo mio! tu t’inganni e tu sei in grand’errore; per ciò che si chiamano sostantia, perchè sono sostentamento dell’uomo. Finito il bel convito e le interrogazioni, pre’ Papiro tirò Gianotto da parte e dissegli: Gianotto, compare mio, voi potete facilmente comprendere quanto poco frutto abbia fatto il figliuol vostro in Padova. E però per consiglio mio no ’l manderete più in studio, a ciò che egli non perda il tempo e voi i dinari; e se altrimenti farete, voi ve ne pentirete. Gianotto, che non sapea più oltre, diede fede alle parole del prete; e spogliato il figliuolo dei cittadineschi panni e vestitolo di griso, il mandò dietro a’ porci. Pirino, vedendosi falsamente superato dalla ignoranza di Papiro, nè aver potuto disputar seco, non già ch’egli non sapesse, ma per non conturbare e parenti che gli davano l’onore, e vedendosi di scolare fatto custode di porci, ritenne nella mente il conceputo dolore; e in tanto sdegno e furore divenne, che al tutto deliberò di vendicarsi di sì ignominioso scorno. E la fortuna in questo gli fu molto favorevole, perciò che, andando un giorno pascendo e porci dinanzi la casa del prete, vidde la sua gatta, e tanto col pane l’avezzò, che la prese; e trovata certa stoppa grassa, glie la legò alla coda; e datole il fuoco, la lasciò fuggire. La gatta, sentendosi strettamente legata la coda e aver il fuoco alle natiche, corse in casa; e per un pertuggio si mise in una camera appresso quella dove il prete ancor dormiva, e tutta paventata fuggì sotto la lettiera, dove era gran copia di lino. Nè stette molto, che il lino, la lettiera e tutta la camera cominciò ardere. Pirino, vedendo che la casa di pre’ Papiro Schizza s’abbrusciava e che quasi non vi era più rimedio di estinguere il fuoco, cominciò ad alta voce Gridare: Prestule, prestule, surge de reposorio, et vidde ne cadas in gaudium, quia venit saltagraffa et portavit carniscoculum; et nisi succurras domum cum abundantia, non restabit tibi substantia. Pre’ Papiro, che ancor nel letto giaceva e dormiva, udita l’alta voce di Pirino, si destò e porse l’orecchie al gridare che ei faceva; ma non comprese quello che Pirino diceva, per ciò che non si rammentava delle parole che dette l’aveva. Il fuogo già d’ogni parte della casa operava la sua virtù; nè li mancava se non entrare nell’uscio della camera dove dormiva il prete, quando pre’ Papiro si destò e vidde che tutta la casa ardeva. Onde levatosi di letto, corse per estinguere il fuoco; ma non vi fu tempo, per ciò che ogni cosa ardeva e appena scampò la vita. E così pre’ Papiro nudo di beni temporali nella sua ignoranza rimase; e Pirino, della ricevuta ingiuria grandemente vendicato, lasciata la cura de’ porci, meglio che puote a Padova ritornò: dove diede opera all’incominciato studio; e famosissimo uomo divenne.
Poscia che Vicenza mise fine alla sua ridicolosa favola, da tutti universalmente comendata, la Signora ordinò che con l’enimma seguisse. La quale, ancor gli altri ridendo, così disse:
Morto son, com’ogni un conosce e crede;
Ed alma e spirto tengo, e mi lamento.
Guarda che dura sorte il ciel mi diede!
Che quando alcun mi bussa, nulla sento.
Chi mi dà delle mani, chi del piede;
Chi qua, chi là mi spinge in un momento.
O dura sorte! error non ho commesso,
E ogni un mi scaccia qual nemico espresso.
Vicenza, che vedeva niuno intendere il dubbioso enimma, con leggiadra e laudevole maniera in tal guisa il nodo sciolse: L’enimma, da voi con attenzione ascoltato, altro non dinota eccetto la palla grossa, la quale è morta e ha lo spirito quando è gonfiata; e vien gittata da’ giuocatori or quinci or quindi con mani e piedi, ed è da tutti come capital nemica scacciata. — Fiordiana, a cui l’ultimo aringo della presente notte toccava, levossi in piede, e allegramente disse: Signora, mi sarebbe di non picciolo contento, quando il signor Ferier Beltramo volesse per gentilezza sua farmi una grazia, per la quale io gli sarei sempre tenuta. Il signor Ferier, sentendosi nominare e richieder la grazia, disse: Signora Fiordiana, a voi sta il comandare e a me l’ubidire. Comandate adunque quel che vi piace, che sforzerommi di contentarvi a pieno. La damigella, udita la benigna risposta, prima molto lo ringraziò del suo buon volere: dopò disse: Altro, signor Feriero, da voi non chieggo, se non che ora, che a me tocca la volta di favoleggiare, in luogo mio una favola raccontate. Il signor Feriero, intesa l’onesta dimanda, prima con amorevoli parole, come sempre fu di suo costume, alquanto si escusò; poscia, veggendo l’animo suo e di tutta la compagnia esser a questo inchinevole, posta giù ogni durezza, disse: Io, signora Fiordiana, per contentamento vostro e di questa onorevole brigata, son disposto compiacervi. Ma se da me non arrete quello che voi bramate ed è il desiderio mio, incolparete non me, debole instromento e non assuefatto in cotal cose, ma voi che di questo ne sete stata primiera cagione. E fatta la iscusazione, in tal maniera diede principio alla sua favola, così dicendo.