Le piacevoli notti/Notte IV/Favola IV
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FAVOLA IIII.
Sono molti, dilettevoli donne, i quali per avere lungo tempo dato opera al studio delle buone lettere, si pensano molte cose sapere; e poi, o nulla, o poco sanno. E mentre questi tali credonsi signare in fronte, a se stessi cavano gli occhi: sì come avenne ad uno medico molto scienziato nell’arte sua; il quale, persuadendosi di altrui uccellare, fu non senza sua grave danno ignominiosamente uccellato: sì come per la presente favola, che raccontarvi intendo, poterete pienamente comprendere.
Gallese, re di Portogallo, ebbe un figliuolo, Nerino per nome chiamato; ed in tal maniera il fece nudrire, che egli, sino a tanto che non pervenisse al decim’ottavo anno della sua età, non potesse vedere donna alcuna, se non la madre e la balia che lo nodricava. Venuto adunque Nerino alla età perfetta, determinò il re di mandarlo in studio a Padova, acciò che egli imparasse le lettere latine, la lingua ed i costumi italiani. E così com’egli determinò, così fece. Ora essendo il giovane Nerino in Padova, ed avendo presa amicizia di molti scolari che quotidianamente il corteggiavano, avenne che tra questi v’era un medico che maestro Raimondo Brunello fisico si nominava; e sovente ragionando tra loro diverse cose, si misero, come è usanza de’ giovani, a ragionare della bellezza delle donne: e chi diceva l’una, e chi l’altra cosa. Ma Nerino, perciò che per lo adietro non aveva veduta donna alcuna eccetto la madre e la balia sua, animosamente diceva che per suo giudicio non si trovava al mondo donna che fusse più bella, più leggiadra e più affilata che la madre sua. Ed essendone state a lui dimostrate molte, tutte come carogne a comparazione della madre sua reputava. Maestro Raimondo, che aveva una moglie delle belle donne che mai la natura facesse, postasi la gorgiera delle ciancie, disse: Signor Nerino, io ho veduta una donna di tal bellezza, che quando voi la vedeste, forse non la riputareste meno, anzi più bella della madre vostra. A cui rispose Nerino ch’egli credere non lo poteva, che ella fosse più formosa della madre sua; ma che ben arebbe piacere di vederla. A cui disse maestro Raimondo: Quando vi sia a grado di vederla, mi offerisco di mostrarcela. — Di questo, rispose Nerino, ne sarò molto contento, e vi rimarrò obligato. Disse allora maestro Raimondo: Poi che vi piace di vederla, verrete domattina nella chiesa del domo; che vi prometto che la vederete. Ed andatosene a casa, disse alla moglie: Dimane lievati di letto per tempo, ed acconciati il capo, e fatti bella, e vestiti onoratissimamente; per che io voglio che tu vadi nell’ora della messa solenne nel domo ad udir l’ufficio. Genobbia, così era il nome della moglie di maestro Raimondo, non essendo usa di andare or quinci or quindi, ma la maggior parte si stava in casa a cusere e ricamare, molto di questo si maravigliò; ma perciò che così egli voleva, ed era il desiderio suo, ella così fece: e si mise in punto, e conciossi sì fattamente, che non donna, anzi dea pareva. Andatasene adunque Genobbia nel sacro tempio, sì come il marito le aveva imposto, venne Nerino, figliuolo del re, in chiesa; e veduta Genobbia, tra se stesso bellissima la giudicò. Partita la bella Genobbia, sopragiunse maestro Raimondo; ed accostatosi a Nerino, disse: Or che vi pare di quella donna che ora è partita di chiesa? Parvi che ella patisca opposizione alcuna? È ella più bella della madre vostra? — Veramente, disse Nerino, che ella è bella: e la natura più bella far non la potrebbe. Ma ditemi, per cortesia; di cui è ella moglie, e dove abita. A cui maestro Raimondo non rispose a verso, perciò che dirglielo non voleva. Allora disse Nerino: Maestro Raimondo mio, se voi non volete dirmi chi ella sia e dove abita, almeno contentatemi di questo, che io un’altra fiata la vegga. — Bene volentieri, rispose maestro Raimondo. Dimane verrete qua in chiesa; ed io farò sì che oggi la vedrete. Ed andatosene a casa, maestro Raimondo disse alla moglie: Genobbia, apparecchiati per domattina, che io voglio che tu vadi a messa nel domo; e se mai tu ti festi bella, e pomposamente vestisti, fa che dimane il facci. Genobbia di ciò, come prima, stavasi maravigliosa. Ma per ciò che importava il comandamento del marito, ella fece tanto, quanto per lui imposto le fu. Venuto il giorno, Genobbia, riccamente vestita e vie più del solito ornata, in chiesa se n’andò. E non stette molto, che Nerino venne; il quale, veggendola bellissima, tanto del lei amore se infiammò, quanto mai uomo di donna facesse. Ed essendo giunto maestro Raimondo, Nerino lo pregò che egli dir li dovesse, chi era costei che sì bella a gli occhi suoi pareva. Ma fingendo maestro Raimondo di aver pressa per rispetto delle pratiche sue, nulla allora dir gli volse; ma lasciato il giovane cuocersi nel suo unto, lietamente si partì. Laonde Nerino, alquanto d’ira acceso per lo poco conto che maestro Raimondo aveva mostrato farsi di lui, tra se stesso disse: Tu non vuoi che io sappi chi ella sia e dove abiti; ed io lo saprò a tuo mal grado. Ed uscito dalla chiesa, tanto aspettò, che la bella donna ancor uscì della chiesa fuori; e fattale riverenza, con modesto modo e volto allegro sino a casa l’accompagnò. Avendo adunque Nerino chiaramente compresa la casa dove ella abitava, cominciò vagheggiarla; nè sarebbe passato un giorno, ch’egli non fusse dieci volte passato dinanzi la casa sua. E desiderando di parlar con lei, andava imaginando che via egli potesse tenere per la quale l’onor della donna rimanesse salvo, ed egli attenesse l’intento suo. Ed avendo pensato e ripensato, nè trovando alcun remedio che salutifero li fusse, pur tanto fantasticò, che gli venne fatto di aver l’amicizia d’una vecchiarella, la quale aveva la sua casa all’incontro di quella di Genobbia. E fattile certi presentuzzi, e confermata la stretta amicizia, secretamente se ne andava in casa sua. Aveva la casa di questa vecchiarella una finestra la quale guardava nella sala della casa di Genobbia: e per quella a suo bel agio poteva vederla andare su e giù per casa; ma non voleva scoprirsi per non darle materia di non lasciarsi più vedere. Stando adunque Nerino ogni giorno in questo secreto vagheggiamento, ne potendo resistere all’ardente fiamma che gli abbrusciava il cuore, deliberò tra se stesso di scriverle una lettera e girargliela in casa a tempo che gli paresse che il marito in casa non fusse. E così gliela gittò. E questo egli più volte fece. Ma Genobbia, senza altrimenti leggerla, nè altro pensando, la gittava nel fuoco, e l’abbrusciava. E quantunque ella avesse tal effetto fatto più fiate, pur una volta le parve d’aprigliene una e vedere quello che dentro si conteneva. E apertala, e veduto come il scrittore era Nerino, figliuolo del re di Portogallo, di lei fieramente innamorato, stette alquanto sopra di sè; ma poi considerando alla mala vita che il marito suo le dava, fece buon animo, e cominciò far buona ciera a Nerino; e dato un buon ordine, lo introdusse in casa. Ed il giovane le raccontò il sommo amore che egli le portava, ed i tormenti che per lei ogn’ora sentiva, e parimenti il modo come fusse di lei innamorato. Ed ella, che bella, piacevole e pietosa era, il suo amore non gli negò. Essendo adunque ambeduo d’un reciproco amore congiunti, e stando negli amorosi ragionementi, ecco maestro Raimondo picchiare a l’uscio. Il che Genobbia sentendo, fece Nerino coricarsi sopra il letto, e stese le cortine ivi dimorare, sino a tanto che il marito si partisse. Entrato il marito in casa, e prese alcune sue cosette, senza avedersene di cosa alcuna si partì. Ed altresì fece Nerino. Venuto il giorno sequente, ed essendo Nerino in piazza a passeggiare, per aventura passò maestro Raimondo: a cui Nerino fece di cenno che gli voleva parlare; ed accostatosi a lui, li disse: Messere, non vi ho io da dire una buona novella? — E che? disse maestro Raimondo. — Non so io, disse Nerino, la casa di quella bellissima madonna? E non sono io stato in piacevoli ragionamenti con esso lei? e perciò che il suo marito venne a casa, ella mi nascose nel letto, e tirò le cortine, acciò che egli vedermi non potesse, e subito si partì. Disse maestro Raimondo: È possibil questo? Rispose Nerino: Possibil è, ed il vero; nè mai vidi la più festevole, nè la più graziata donna di lei: se per caso, messere mio, voi andaste a lei, fate che mi raccomandate, pregandola che la mi conservi nella sua buona grazia. A cui maestro Raimondo promesse di farlo; e di mala voglia da lui si partì. Ma prima disse a Nerino: Gli tornarete più? A cui rispose Nerino: Pensatel voi. Ed andatosene maestro Raimondo a casa, non volse dir cosa alcuna alla moglie, ma aspettare il tempo di ritrovarli insieme. Venuto il giorno sequente, Nerino a Genobbia ritornò; e mentre stavano in amorosi piaceri e dilettevoli ragionamenti, venne a casa il marito. Ma ella subito nascose Nerino in una cassa; a rimpetto della quale pose molte robbe, che ella sborrava, acciò che non si tarmassino. Il marito, fingendo di cercare certe sue cose, gittò sottosopra tutta la casa, e guatò sino nel letto; e nulla trovando, con più riposato animo si partì, ed alle sue pratiche se n’andò. E Nerino parimenti si partì. E ritrovato maestro Raimondo, gli disse: Signor dottore, non sono io ritornato da quella gentildonna? e la invidiosa fortuna mi ha disconzo ogni piacere; perciò che il lei marito sopragiunse, e disturbò il tutto. — E come facesti? disse maestro Raimondo. — Ella, rispose Nerino, aperse una cassa, e mi puose dentro; e rimpetto della cassa puose molte vestimenta che ella governava, che non si tarmassino. Ed egli il letto sottosopra volgendo e rivolgendo, e nulla trovando, si partì. Quanto questa cosa tormentosa fusse a maestro Raimondo, pensare il può chiunque ha provato amore. Aveva Nerino a Genobbia donato un bello e prezioso diamante, il quale dentro la ligatura nell’oro aveva scolpito il capo e nome suo; e venuto il giorno, ed essendo maestro Raimondo andato alle sue pratiche, Nerino fu dalla donna in casa introdotto: e stando con esso lei in piaceri e grati ragionamenti, ecco il marito che ritorna a casa. Ma Genobbia cattivella, aveggendosi della venuta sua, immantinente aperse un scrigno grande che era nella sua camera, e dentro lo nascose. E maestro Raimondo, entrato in casa, fingendo di cercare certe sue cose, rivolse la camera sottosopra; e nulla trovando, nè in letto, nè nelle casse, come sbalordito, prese il fuoco; ed a tutti i quattro cantoni della camera lo pose con determinato animo di abbrusciare la camera e tutto ciò che in quella si conteneva. Già i parieti e le travamenta cominciavano ardere, quando Genobbia, voltatasi contra il marito, disse: Che vuol dir questo, marito mio? Siete forse voi diventato pazzo? Se pur voi volete abbrusciare la casa, brusciatela a vostro piacere: ma in fede mia non abbrusciarete quel scrigno dove sono le scritture che appartengono alla dote mia; — e fatti chiamare quattro valenti bastagi, gli fece traere di casa lo scrigno e ponerlo in casa della vicina vechiarella; e celatamente lo aprì, che niuno se n’avide, e ritornossene a casa. L’insensato maestro Raimondo stava pur a vedere se usciva fuori alcuno che non gli piacesse: ma nulla vedeva, se non l’insopportabile fumo ed ardente fuoco che la casa abbrusciava. Erano già concorsi e vicini per estinguere il fuoco; e tanto si operorono, che finalmente lo spensero. Il giorno sequente Nerino, andando verso il prato dalla valle, in maestro Raimondo si abbattè; e salutatolo, disse: Maestro mio, non vi ho io da raccontare una cosa che molto vi piacerà ? — E che ? rispose maestro Raimondo. — Io, disse Nerino, ho fuggito il più spaventevole pericolo che mai fuggisse uomo che porti vita. Andai a casa da quella gentil madonna; e dimorando con esso lei in piacevoli ragionamenti, sopragiunse il suo marito: il quale, dopo ch’ebbe rivoltata la casa sottosopra, accese il fuoco, e poselo in tutti i quattro cantoni della camera, ed abbrusciò ciò che era in camera. — E voi, disse maestro Raimondo, dove eravate? — Io, rispose Nerino, era nascoso nel scrigno che ella fuori di casa mandò. Il che maestro Raimondo intendendo, e conoscendo ciò che egli raccontava essere il vero, da dolore e passione si sentiva morire; ma pur non osava scoprirsi, perciò che desiderava di vederlo nel fatto. E dissegli: Signor Nerino, vi ritornarete voi mai più ? A cui rispose Nerino: Avendo io scampato il fuoco, di che più temenza debbo io avere ? Or messi da canto questi ragionamenti, maestro Raimondo pregò Nerino che si dignasse d’andare il giorno seguente a desinar seco; ed il giovane accettò volentieri l’ invito. Venuto il giorno seguente, maestro Raimondo invitò tutti e suoi parenti ed e parenti della moglie, ed apparecchiò un pomposo e superbo prandio: non già nella casa che era mezza abbrusciata, ma altrove; e comandò alla moglie che ancor ella venesse, ma che non dovesse sedere a mensa: ma che stesse nascosta e preparasse quello che faceva mestieri. Raunati adunque tutti e parenti ed il giovane Nerino, furono posti a mensa; e maestro Raimondo con la sua maccaronesca scienza cercò de inebriare Nerino per poter poi fare il parer suo. Laonde avendoli più volte pòrto maestro Raimondo il bicchiere pieno di malvatico vino, ed avendolo Nerino ogni volta bevuto, disse maestro Raimondo: Deh, signor Nerino, raccontate un poco a questi parenti nostri una qualche novelluzza da ridere. Il povero giovane Nerino, non sapendo che Genobbia fusse moglie di maestro Raimondo, cominciò raccontargli l’istoria: riservando però il nome di ciascuno. Avenne che uno servente andò in camera dove Genobbia dimorava, e dissele: Madonna, se voi foste in un cantone nascosta, voi sentireste raccontare la più bella novella che mai udiste alla vita vostra; venete, vi prego. Ed andatasene in un cantone, conobbe che la voce era di Nerino suo amante, e che l’istoria, ch’egli raccontava, a lei perteneva. E da donna prudente e saggia tolse il diamante che Nerino donato li aveva, e poselo in una tazza d’argento piena d’una delicata bevanda, e disse al servente: Prendi questa tazza, e recala a Nerino, e digli che egli la beva, che poi meglio ragionerà. Il servente, presa la tazza, portolla alla mensa; e volendo Nerino bere, disse il servente: Pigliate questa tazza, signore, che poi meglio ragionarete. Ed egli, presa la tazza, beve tutto il vino; e veduto e conosciuto il diamante che vi era dentro, lo lasciò andare in bocca; e fingendo di nettarsi la bocca, lo trasse fuori, e se lo mise in dito. Ed accortosi Nerino che la bella donna di cui ragionava era moglie di maestro Raimondo, più oltre passare non volse; e stimolato da maestro Raimondo e da i parenti che l’istoria cominciata seguisse, egli rispose: Eh sì, eh sì! cantò il gallo, e subito fu dì; e dal sonno risvegliato, altro più non udì. Questo udendo e parenti di maestro Raimondo, e prima credendo che tutto quello che Nerino gli aveva detto della moglie esser vero, trattorono l’uno e l’altro da grandissimi embriachi. Dopo alquanti giorni Nerino trovò maestro Raimondo; e fingendo di non sapere che egli fusse marito di Genobbia, dissegli che fra due giorni era per partirsi: perciò che il padre scritto gli aveva che al tutto tornasse nel suo reame. Maestro Raimondo li rispose che fusse il ben andato. Nerino, messo secreto ordine con Genobbia, con lei se ne fuggì; ed in Portogallo la trasferì, dove con somma allegrezza longamente vissero. E maestro Raimondo, andatosene a casa e non trovata la moglie fra pochi giorni disperato se ne morì.
Questa favola da Isabella raccontata fu alle donne, e parimenti a gli uomini carissima: e massimamente, che maestro Raimondo del suo male era stato cagione, ed eravi avenuto quello che ricercando andava. Ma avendo la Signora di quella la fine udita, fece segno a Lionora che all’ordine andasse dietro. Ed ella, non pigra al comandamento della Signora, così il suo enimma propose.
Nel mezzo della notte un leva su,
Tutto barbuto, e mai barba non fè.
Il tempo accenna, nè strologo fu;
Porta corona, nè si può dir re.
Nè prete, e l’ore canta; e ancor più:
Calza li sproni, e cavalier non è.
Pasce figliuoli, e moglie in ver non ha;
Molto è sottil, ch’indovinar lo sa.
Era già al suo termine aggiunto il dotto enimma da Isabella raccontato. E quantunque vari varie cose andassero imaginando, niuno perciò alla verità pervenne: salvo la sdegnosetta Lodovica; la quale, ricordevole del a lei fatto scorno, si levò in piedi, e così disse: Lo enimma di questa nostra sorella altro non dimostra, se non il gallo che si leva la notte a cantare, ed è barbuto; e conosce la mutazione del tempo, avenga che strologo non sia. Porta la cresta in vece di corona, e non è re; canta le ore, e non è prete. Appresso questo, ha gli sproni nelle calcagna, e non è cavaliere. Non ha moglie, e gli altrui figliuoli, che sono i pollicini, pasce. — Piacque a tutti la isposizione del prudente enimma: e massimamente al Capello; il quale disse: Signora Lodovica, Isabella vi ha renduto pane per schiacciata; perciò che poco fa con molta agevolezza voi dichiaraste il suo, ed ora ella ha dichiarato il vostro. E però l’una all’altra non arra invidia. Rispose la pronta Lodovica: Signor Bernardo, quando sarà il tempo, le renderò gnanf per gnaf. Ma acciochè non si moltiplicasse in parole, la Signora ordinò che ogni uno tacesse; e voltato il viso verso a Lionora, a cui l’ultimo ragionamento della presente notte toccava, le impose che donnescamente alla sua favola desse cominciamento; la quale vezzosamente così incominciò: