Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi eginetiche/Ode Nemea VII

Ode Nemea VII

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Nemea VII
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ODE NEMEA VII

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In questa ode, fioriture, sovente superflue, sviano continuamente il lettore. Giova pertanto, qui piú che altrove, aver presente sempre la nuda successione dei pensieri.

Invocazione ad Ilizia, la Dea che assiste i forti, per la quale, e solo per essa, godiamo le meraviglie e le dolcezze della vita (1-5).

Ha vinto Sògene. E chi vince, riscuote onore dagli intendenti: però, se non trova un poeta che lo canti, cadrà nell’oblio. E come un marinaio esperto prevede il vento tre giorni prima, cosí Pindaro prevede che Sògene darà molto da fare ai poeti (6-20).

Tutti cadono nell’oblio di morte. Solo i canti mantengono la memoria — talora oltre il merito, come avvenne con Ulisse. L’arte fa spesso parer vera la finzione (cfr. O. I. Epodo I), né gli uomini sanno discernere il vero dal falso. Se avessero saputo, mai Aiace non si sarebbe data la morte (20-34).

Tutti devono morire. Ma sopravvive agli uomini l’onore largito dai Numi: ond’è che tuttora Pindaro può rievocar Neottolemo. Questi fu educato a Sciro, presso il re Licomede. Ma Ulisse lo andò a toglier da quella corte perché era fatale che senza lui non si potesse espugnare Troia. E Neottolemo andò, distrusse la città, né tornò mai piú al luogo dove aveva trascorsa l’infanzia. Errò per terra e mare, giunse ad Efira, e tenne breve tempo lo scettro dei Molossi, che poi restò [p. 158 modifica] ai suoi discendenti: andato a Delfi per offrire le primizie dei trofei di Troia, rimase ucciso in una rissa. Ed era fatale. Ché qualcuno degli Eàcidi doveva esser sepolto lí, e rimanervi, Dèmone protettore e giudice dei giuochi Pitici. E lí giace tuttora e compie tale ufficio. Le glorie degli Egineti sarebbero innumerevoli; ma non si possono mentovare tutte, ché nasce sazietà anche delle cose piú squisite (35-61).

Gli uomini hanno valore diverso; e nessuno possiede tutto. Tearione, il padre di Sògene, è ricco, attivo, assennato: Pindaro, ospite suo, canta le sue lodi (62-72).

E qui Pindaro si difende da un’accusa: quella di avere, in un altro suo canto (il Peana VI), parlato poco rispettosamente di Neottolemo. Ma è tra ospiti che lo conoscono; e tutti sanno come egli non sia maledico, e non riesca mai, per simile malvezzo, inopportuno. Opportune saranno le cose che dirà per Sogene, il quale tornò vittorioso dai ludi. La Musa componga per lui un inno meraviglioso (73-90).

E suoni l’inno per Giove in Nemea, ed in Egina, ove dal Nume nacque Eaco, che è per Eracle quasi un fratello. — Il massimo vantaggio che si può trarre da un buon uomo è averlo vicino; e Sogene ha la sua casa fra due santuarî d’Eracle: voglia l’eroe conciliare a lui Giove ed Atena, che diano felicità, anzi l’accrescano anche ai loro discendenti (90-116).

Ribatte anche una volta l’accusa di aver parlato male di Neottolemo (116-125). —

Le immagini di questa ode le abbiamo già trovate quasi tutte in altre. Il canto è rassomigliato ad uno specchio che rifletta le prodezze dell’uomo cantato (v. 16). Il fiore di giglio rapito al mare (v. 88 sg.), è, credo, non il corallo né la perla, bensí la madreperla. E l’inno è qui paragonato ad un intarsio d’avorio oro madreperla. L’ultimo verso è intraducibile. Pindaro dice che ripetere sempre la stessa cosa è un Διός [p. 159 modifica] Κόριθος: Corinto è di Giove. Doveva essere, senza badar troppo a quello che dice lo scoliaste, il principio d’un inno ripetuto sino alla sazietà — specialmente, s’intende, dai Corinzi. Santia, il servo delle Rane aristofanesche, a Diòniso che non fa se non ripetergli che si carichi sulle spalle il pesante sacco di viaggio, dice anch’egli: questa è la Corinto di Giove; cioè: ecco la solita musica!


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PER SOGENE D’EGINA

VINCITORE NEL PENTATLO A NEMEA


I


Strofe

Ilizia, che siedi vicina alle Parche dal senno profondo,
d’Era possente figliuola, che ai pargoli
dài vita, ora ascoltami: ché senza di te
né il dí né la tenebra notturna vedremmo,
né Tebe godremmo, la tua sorella dal fulgido aspetto.
Non anima uguale vigore ogni seno;
ma vario destino costringe i varî uomini.
Ed ora il figliuol di Teríone, Sogène, cui rese famoso
prodezza nel pèntatlo, ha onore di fama e di canti,


Antistrofe

poiché degli Eàcidi nell’arce che suona di canti ha dimora.
E quelli onore largiscono ai cuori
esperti agli agoni. Chi amica ha Fortuna
nell’opere imprese, soave cagione
ai rivoli offrí delle Muse. Ché l’alto valore, se d’inni
è privo, lo avvolgono tènebre fonde.
E solo una foggia di specchio conosco
al prode operar; se Mnemòsine dal fulgido velo consente
compenso ai travagli ne l’inclite fluenti del verso.

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Epodo

Innanzi tre giorni prevedon gli esperti
il vento; né lucro l’inganna o lusinga.
Povero e ricco, del pari pervengono al passo di morte:
ma, grazie al canto d’Omero
soave, la fama d’Ulisse fu, penso,
piú grande che non le sue gesta.


II


Strofe

Ché augusta pur essa la cosa non vera ti sembra, cui l’arte
su le sue penne levò. Poesia
con finti racconti rapisce gli spiriti;
e cieco han le turbe degli uomini il cuore.
Se il vero sapevano scorgere, sul brando funesto non mai
per l’armi d’Achille piombato sarebbe
Aiace, il piú forte, se togli il Pelide,
fra quanti gli spiri di Zèfiro condussero d’Ilio a la rocca,
perché Menelao chioma bionda s’avesse la sposa.


Antistrofe

Il flutto d’Averno s’avanza del pari su tutti: precipita
su chi l’attende, su chi non l’attende.
Ma all’uom sopravvive l’onore, se a lui
defunto alta fama concedono i Numi.
Però l’ampio sen della terra traverso, ed al grande umbilico
mi reco; ed a Pito giace or Neottolemo,

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poi ch’ebbe riversa la rocca di Priamo,
per cui s’affannarono i Dànai. Ed ei, navigando, mai piú
a Sciro non giunse. Errabondi toccarono Efíra.


Epodo

E sovra i Molossi regnò poco tempo.
Ma i suoi discendenti lo scettro regale
sempre serbarono. E al Nume di Pito egli mosse, e l’offerte
de le primizie d’Ilio
recò. Per le carni qui surta contesa,
un uomo l’uccise di ferro.


III


Strofe

Di grave dolore percosso fu il cuore dei Delfi ospitali.
Ma si compieva la sorte fissata:
ché alcun degli Eàcidi possenti doveva
nel bosco antichissimo, giacendo vicino
ai solidi muri del tempio del Nume, presieder le pompe
eroiche, e le vittime opime, secondo
l’augurio di retta giustizia. Tre bastano
parole: ora è teste dell’opre veridico. O Egina, pei tuoi,
pei figli di Giove asserire posso io con baldanza


Antistrofe

che dalle lor case si parte una strada maestra di fulgide
glorie. Ma è dolce riposo in ogni opera.
Perfino del miele, perfino dei fiori

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soavi di Cípride può nascer fastidio.
Ciascun dei mortali ha diverso retaggio di vita: uno vale
in questo, altri in altro: che un uomo consegua
il bene universo, possibil non è:
né dire ti posso a chi stabile tal sorte concesse la Parca.
A te concedea, Tearíone, ricchezza opportuna;


Epodo

né, poi che ti diede l’ardire dell’opera,
ti volle negata la forza del senno.
Ospite io sono: tenendo da me lunge il biasimo oscuro,
come con rivi di linfe,
aspergo l’amico di gloria veridica,
che degna mercede è pei buoni.


IV


Strofe

Né farmi rimprovero, se fosse presente, verun degli Achei
ch’oltre il mar Ionio dimoran, potrebbe.
E fede ho ne l’ospite, e levo securo
lo sguardo fra il popolo, fuggendo il soverchio,
dai pie’ vïolenza scacciando. Cosí l’avvenire s’avanzi
felice. Sentite da chi mi conosce
se io con malediche ciance, sia mai
uscito di tòno. Ti giuro, o Sògene, Eussènide giovane,
che, simile a strale di bronzo lanciando il mio verso,

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Antistrofe

saprò non fallire la mèta. Dai ludi tornar tu valesti,
òmero e forze non anche bagnati,
avanti che al sole restassero esposti.
Se grande il travaglio, maggiore fu il gaudio.
Or lascia che io per chi vinse — se mai troppo in alto la voce
sviai, non m’è grave di nuovo qui fletterla —
or lascia che intrecci ghirlande. E tu, Musa,
veloce compàgina l’oro col candido avorio, col fiore
di giglio rapito alle schiume roranti del mare.


Epodo

E a Giove la mente volgendo, in Nemèa
il murmure placido degl’inni famosi
fa’ che risuoni. Cantare si deve con dolce loquela
su questo piano, il Signore
dei Numi: ché quivi, raccontano, Eàco
dal grembo materno gli nacque:


V


Strofe

Eàco, che, vigile sopra la patria sua nobile, o Eracle,
ospite, amico, fratello è per te.
Se uom da un altr’uomo può trarre vantaggio,
direi che un vicino che t’ami leale

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è gaudio supremo: e tal gaudio se possa anche dare un Celeste,
a te che i Giganti domasti, vicino
restando, volgendo pensieri d’affetto
al padre, abitare Sogène si piaccia, sovressa la ricca
santissima terra, che culla degli avi suoi fu.


Antistrofe

Poi ch’egli ha sua casa fra tuoi santuarî, sí come fra i gioghi
della quadriga, dovunque si volga,
a dritta o a sinistra. Beato, a te d’Era
placare lo sposo conviene, e la vergine
ch’à cerulo il ciglio. Tal forza tu puoi tra gl’impervi travagli
infonder negli uomini, che n’escano salvi.
Cosí possa ad essi concedere vita
di forza durevol, beata, negli anni piú floridi, e nella
serena vecchiezza; ed i figli dei figli abbian sempre


Epodo

l’onore che adesso segnò loro stirpe;
e il tempo futuro lo accresca. Non mai
dir si potrà che con folli parole io ferii Neottolemo.
Tre, quattro volle ripetere
le cose è da inetti: da balie che ai bimbi
ripetan la stessa canzone.