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158 LE ODI DI PINDARO


ai suoi discendenti: andato a Delfi per offrire le primizie dei trofei di Troia, rimase ucciso in una rissa. Ed era fatale. Ché qualcuno degli Eàcidi doveva esser sepolto lí, e rimanervi, Dèmone protettore e giudice dei giuochi Pitici. E lí giace tuttora e compie tale ufficio. Le glorie degli Egineti sarebbero innumerevoli; ma non si possono mentovare tutte, ché nasce sazietà anche delle cose piú squisite (35-61).

Gli uomini hanno valore diverso; e nessuno possiede tutto. Tearione, il padre di Sògene, è ricco, attivo, assennato: Pindaro, ospite suo, canta le sue lodi (62-72).

E qui Pindaro si difende da un’accusa: quella di avere, in un altro suo canto (il Peana VI), parlato poco rispettosamente di Neottolemo. Ma è tra ospiti che lo conoscono; e tutti sanno come egli non sia maledico, e non riesca mai, per simile malvezzo, inopportuno. Opportune saranno le cose che dirà per Sogene, il quale tornò vittorioso dai ludi. La Musa componga per lui un inno meraviglioso (73-90).

E suoni l’inno per Giove in Nemea, ed in Egina, ove dal Nume nacque Eaco, che è per Eracle quasi un fratello. — Il massimo vantaggio che si può trarre da un buon uomo è averlo vicino; e Sogene ha la sua casa fra due santuarî d’Eracle: voglia l’eroe conciliare a lui Giove ed Atena, che diano felicità, anzi l’accrescano anche ai loro discendenti (90-116).

Ribatte anche una volta l’accusa di aver parlato male di Neottolemo (116-125). —

Le immagini di questa ode le abbiamo già trovate quasi tutte in altre. Il canto è rassomigliato ad uno specchio che rifletta le prodezze dell’uomo cantato (v. 16). Il fiore di giglio rapito al mare (v. 88 sg.), è, credo, non il corallo né la perla, bensí la madreperla. E l’inno è qui paragonato ad un intarsio d’avorio oro madreperla. L’ultimo verso è intraducibile. Pindaro dice che ripetere sempre la stessa cosa è un Διός