Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi eginetiche/Ode Istmia VIII

Ode Istmia VIII

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Istmia VIII
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ODE ISTMIA VIII

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Fu scritta dopo la battaglia di Platea (479). L’invasione persiana, la pietra di Tantalo, non pendeva piú sul capo della Grecia. Ma il cuore di Pindaro era triste per la decimazione minacciata alla sua Tebe. Ad ogni modo, si fa animo, e canta: il male trascorso è trascorso: meglio badare agli eventi attuali (v. 17).

E a Pindaro, tebano, si addice cantare un Egineta, perché Tebe ed Egina furono figlie di uno stesso padre, Asopo, ed ambedue amate da Giove. Ed Egina generò Eaco, tanto giusto, che anche i Numi lo chiamarono a decidere le loro questioni. Né meno saggi furono i figli: e n’è prova la scelta che fecero i Numi di Pèleo per accordargli la divina Tetide. Giove e Posidone la desideravano entrambi; ma come Tetide ebbe detto ad essi che dalla fanciulla sarebbe nato un figlio piú potente del padre, desisterono dalla gara, e scelsero per quelle nozze pericolose il piú degno dei mortali: Peleo. E da Peleo nacque Achille, che compie’ innumerevoli gloriosissime gesta. Sí che i Numi lo vollero celebrato nel canto dei poeti anche dopo morto.

E questo esempio dato dai Numi, vige tuttora (85). Onde conviene cantare la gloria del defunto Nicocle, zio del vincitore che, al pari di Achille (v. 90), pure egli vinse nell’agone tutti i suoi rivali. Né a Nicocle fa torto il nipote [p. 120 modifica]Cleandro, che vinse già nell’agone megarese (di Alcatoo), e in quello dei fanciulli ad Epidauro.

Quest’ode non è composta di triadi, ma di semplici strofe.


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PER OLEANDRO D’EGINA

VINCITORE NEL PANCRAZIO SULL’ISTMO


I


Per Oleandro e per gli anni suoi floridi,
o giovani, un canto leviamo,
egregio compenso ai travagli, venendo al vestibolo fulgido
di Telesarco:
ch’ei vinse su l’Istmo; ed in Neme
riscosse nei membri la forza che vinse l’agone.
Onde or, sebben cruccio
mi siede nel cuore, m’invitan che invochi
la Musa dall’aureo canto. Dai gravi travagli alfin liberi,
non devesi orbati restar di ghirlande,
né schiavi chinarsi alla doglia. Fin posto al disutile pianto,
passate le pene, si goda la pubblica festa,
poiché qualche Nume
a noi dalla fronte distolse la pietra di Tantalo,


II


l’insoffribil supplizio de l’Ellade.
Già fine alla grave mia cura
poneva il terrore che fugge. Val meglio, in qualsiasi evento,
badare al presente:

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ché il tempo ingannevole incombe
sugli uomini, e il tramite volge di vita. Per tali
sciagure, può il farmaco
agli uomini dar Libertà. La speranza
conviene al mortale. A chi crebbe in Tebe settemplice, addicesi
che il fior delle Càriti porga ad Egina.
Ché Tebe ed Egina, le gèmine, le piú giovinette figliuole
fûr d’Asopo; e piacquero a Giove possente, che rese
la prima signora
d’equestre città su la bella sorgente di Dirce;


III


e ne l’isola Enòpia te addusse,
Egina, a giacere; ove al padre
che tuona profondo, il divino Eàco, il piú grande fra gli uomini,
tu desti a la luce.
Ed ei, fin dei Numi le liti
partiva; e i suoi figli divini, e i figli dei figli
guerrieri fûr primi
a reggere, prodi, la furia e il frastuono
del bronzo guerriero; e fûr saggi, prudenti ne l’animo furono.
Dei Numi il consesso ben prova ne diede,
il dí che per Teti contesero Giove e il fulgente Posídone,
ché amore spingevali, e ognuno voleva la bella,
che fosse sua sposa.
Ma i Superi saggi contesero ad essi le nozze.

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IV


come udiron l’oracolo. Tèmide,
accorta al consiglio, a lor disse
che un pargolo avrebbe la Diva del pelago dato alla luce
piú forte del padre;
che un dardo piú fiero del folgore
avrebbe scagliato, e invincibile piú del tridente,
se a Giove o ai fratelli
di Giove ella univasi d’amore. «Su via,
cessate! Essa il talamo ascenda d’un uomo mortale; ed in guerra
cader veda Achille, suo figlio, che simile
a Marte per forza di mano sarà, per il piede a la folgore.
Se udir mi volete, sia sposa, sia premio divino
a Pèleo, che, dicono,
è l’uomo piú pio che dimori nei campi di Iolco.


V


Vadan súbito dunque i messaggi
all’antro immortal di Chirone;
né piú sfogli il fior di contesa fra noi la figliuola di Nèreo;
ma nel plenilunio,
calando già vespro, disciolga
l’amabile fren delle vergini sue membra all’eroe».
Cosí favellò
la Diva ai Cronídi. Chinarono quelli
le ciglia immortali, assentirono. Né il frutto marcí di quei detti;
ma dicon che i Numi concesser le nozze
di Tètide; e il labbro dei vati cantò poi d’Achille la giovine

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prodezza agl’ignari: com’ei la pianura di Misia
ferace di vini
col negro stillante di Tèlefo sangue bagnò,


VI


e agli Atrídi gittò del ritorno
il ponte, ed Elèna redense,
fiaccando con l’asta le forze che lui respingean da la strage
di guerra, quand’egli
nel piano istruiva la zuffa,
e Mènnone, ed Ettore saldo, e ogni altro piú valido.
Ad essi la strada
mostrò di Persèfone Achille, l’Eàcide
pilastro, d’onore coprendo Egina e il suo ceppo. Né morto
lui tacquero i canti; ma presso al suo rogo,
ma presso al sepolcro, le vergini cantâr d’Elicona, e levarono
il lugubre canto di gloria: ché vollero i Superi
anch’essi il gagliardo
mortale, anche spento, ai cantici dar delle Muse.


VII


E ancor vige il costume: onde già
già lanciano il cocchio le Muse,
a dire del pugile Nícocle la gloria. Cantatelo! Presso
la valle de l’Istmo
fu cinto da l’apïo dorico;
e vinse i finitimi prodi, pur egli premendoli
col braccio invincibile.
Né macchia la fama che nacque dal suo

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fratello germano. Su via, dei giovani alcuno a Cleandro
intrecci la florida corona di mirto:
perché con evento felice l’accolse l’agone d’Alcàtoo,
e già tra i fanciulli, Epidauro. È facile ai buoni
per lui tesser lodi;
ché torpida inerzia non strugge la sua gioventú.