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Fu scritta dopo la battaglia di Platea (479). L’invasione persiana, la pietra di Tantalo, non pendeva piú sul capo della Grecia. Ma il cuore di Pindaro era triste per la decimazione minacciata alla sua Tebe. Ad ogni modo, si fa animo, e canta: il male trascorso è trascorso: meglio badare agli eventi attuali (v. 17).
E a Pindaro, tebano, si addice cantare un Egineta, perché Tebe ed Egina furono figlie di uno stesso padre, Asopo, ed ambedue amate da Giove. Ed Egina generò Eaco, tanto giusto, che anche i Numi lo chiamarono a decidere le loro questioni. Né meno saggi furono i figli: e n’è prova la scelta che fecero i Numi di Pèleo per accordargli la divina Tetide. Giove e Posidone la desideravano entrambi; ma come Tetide ebbe detto ad essi che dalla fanciulla sarebbe nato un figlio piú potente del padre, desisterono dalla gara, e scelsero per quelle nozze pericolose il piú degno dei mortali: Peleo. E da Peleo nacque Achille, che compie’ innumerevoli gloriosissime gesta. Sí che i Numi lo vollero celebrato nel canto dei poeti anche dopo morto.
E questo esempio dato dai Numi, vige tuttora (85). Onde conviene cantare la gloria del defunto Nicocle, zio del vincitore che, al pari di Achille (v. 90), pure egli vinse nell’agone tutti i suoi rivali. Né a Nicocle fa torto il nipote