Le odi e i frammenti (Pindaro)/Frammenti/Encomii

Encomii

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Encomii
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ENCOMII

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Gli encomii erano canti di vittoria cantati per re e principi nei banchetti (ὲν κώμοις). Esistevano poi anche altri canti, che nei banchetti intonavano un dopo l’altro i convitati: i famosi scolii, di cui la tradizione ci ha conservato un discreto numero. Di Pindaro sono citati alcuni brani come appartenenti a scolii, altri ad encomii. Qui, seguendo il Puech, li riunisco tutti sotto il secondo titolo, che è l’unico dato dalla lista ambrosiana delle opere di Pindaro.

ENCOMIO I

Riferito dallo scoliaste della seconda Olimpica. Fu composto per Terone.


Io vo’ per i figli de l’Ellade...

· · · · · · · · · · ·
In Rodi essi presero stanza,

e, mossi di qui, nella rocca
eccelsa or dimorano.
Ottennero molti favori
dai Superi; e poscia,
su loro una nuvola
s’addensò d’opulenza perenne.


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ENCOMIO II

Questo brao appartiene ad un encomio scritto per Alessandro Filelleno. I primi tre versi sono riportati dallo scoliaste alla Nemea VII di Pindaro; gli altri due da Dionigi d’Alicarnasso.


Dei beati Dardànidi omonimo,
ardito figliuolo d’Aminta,
pei prodi conviene intonare
i canti piú belli.
Ché quanto si canta soltanto
perviene ad onore immortale;
e l’opera bella,
taciuta, si spenge.


ENCOMIO III

Il ricco Senofonte di Corinto, concorrendo ai giuochi olimpici, nel 466, aveva fatto voto che, se fosse riuscito vincitore, avrebbe offerto una schiera di cento ieròdule o cortigiane sacre. Esaudito, mantenne. E Pindaro, che aveva già scritto per lui l’epinicio (Olimpia XIII), compose anche l’encomio di accompagnamento per la turba delle fanciulle.

Il frammento è d’incomparabile vaghezza, e presenta speciale interesse, perché ci presenta un Pindaro insolito, lontano da ogni gravità e da ogni solennità. Ed egli stesso, con molto spirito, si chiede che cosa diranno i Corinzi nel vedere questo suo nuovo atteggiamento. [p. 271 modifica]

PER SENOFONTE DI CORINTO


Strofe I

O molto ospitali fanciulle,
nell’opulenta Corinto
ministre a Suada, che ardete
del pallido olibano
le lagrime flave,
e spesso il pensiero
vi sciama d’intorno
a Cípride, madre celeste d’amori,

Strofe II

a voi senza biasimo è lecito
coglier dai talami amabili
il fior della tenera età:
ché tutto par bello, se incalza
necessità . . . . . .

Strofe III

· · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · ·
Stupito io mi chiedo

che cosa dell’Istmo
diranno i signori,
che questo mellifluo
preludio io composi
d’un canto compagno di pubbliche donne.

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Strofe IV

Dell’oro dà saggio la pietra
lucida . . . . .

· · · · · · · · · · ·
Di Cipro signora,

nel bosco tuo sacro
recò Senofonte,
giocondo pei voti
che tu gli compievi,
un gregge, una schiera di cento fanciulle.


ENCOMIO IV

Le circostanze di fatto in cui fu composto l’encomio per il giovinetto Teòsseno di Tènedo, figlio di Agèsila, difficilmente si potranno identificare con sicurezza (vedi il mio «Pindaro», pag. 170 seg.). Fortunatamente, questa ignoranza non ci vieta di apprezzare in tutta la sua bellezza, in tutta la sua pienezza di passione, il bellissimo brano che ce ne ha conservato Ateneo (XIII, 564). La leggenda narrava che Pindaro, sul punto di morire, nel teatro d’Argo, reclinò la vecchia fronte sull’omero del giovinetto bellissimo.


PER TEOSSENO DI TENEDO


Strofe

A tempo opportuno conviene, mio spirito,
negli anni piú floridi,
far mèsse d’amori; ma chi le pupille che fulgono
in viso a Teòsseno mira,

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e tutto di brama non èstua,
nell’adamante, nel ferro,
battuto è il cuore suo negro,

Antistrofe

con fiamma di gelo. La Diva Afrodite
dal languido ciglio
lo sprezza; o costretto
s’affanna pel lucro; o si stràscica
per ogni sentiero d’obbrobrio,
servendo ad orgoglio di femmina.
Non io: ché, mercè della Diva,
come pel morso del Sole

Epodo

la cera dell’api divine,
mi struggo, se vedo
le floride membra d’un tenero giovine.
In Tènedo, dunque, Suada e le Grazie
d’Agèsila al figlio . . . .


ENCOMIO V

L’encomio a cui appartennero questi frammenti, fu composto per il Trasibulo, figlio di Senòcrate, e nipote di Terone d’Agrigento, al quale sono anche dedicate la VI pitica e la II istmica. Il tòno, piuttosto giocoso, fa credere che appartenesse al periodo in cui le tenebre non si erano ancora addensate sulle case degli Emmenidi: dunque, piú presso al tempo della Pitia VI. Non è certo, ma neanche si potrebbe escludere, che al medesimo encomio appartenesse anche il framm. VII. [p. 274 modifica]


A TRASIBULO


Strofe I

Questo cocchio d’amabili cantici,
per dopo il banchetto
ti mando, o Trasíbulo.
Sarà, nel clamor del simposio,
d’Atene fra i calici, e i grappoli

Strofe II

di Dïòniso, pungolo dolce,
allor che dal petto
degli uomini, fuggono
le cure che ambasciano, e tutti
natiamo in un pelago d’oro

Strofe III

e dovizie, a una spiaggia fallace.
Il povero allora si crede opulento,
il ricco . . . .

Strofe IV

Della vigna dall’arco percossi,
i cuori si esaltano.


VI

Anche dopo mangiato a sazietà,
alla fine del banchetto,
la leccornia ci va.


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VII

È riferito da Ateneo (XIV, 635 b), a proposito della mágadis, antico strumento a corde. Piú che d’uno strumento, io credo si parli d’una costituzione modale, foggiata da Terpandro sull’esempio della musica lidia.


PER GERONE DI SIRACUSA


Per primo Terpandro di Lesbo
un dí la trovò,
quando udí nel banchetto dei Lidii
suonar su la pèttide acuta
un canto all’ottava.

· · · · · · · · · · ·
Né spenger la gioia

della vita: la cosa piú bella
per l’uomo è una dolce esistenza.


VIII


Amar mi sia dato, ed Amore
compiacere al momento opportuno.
Non rivolgerti, o cuore, a un mèta
che viva piú anni di te.


IX


E le grazie degli Amori,
d’Afrodite, sí che, ebbro,
giochi al còttabo con Chímaro,
in onore d’Afrodite.