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NOTTE I - COLLOQUIO V


comune. Vedemmo allora la toga, insegna di eloquenza e di pace, apportare la distruzione e chieder sangue. Tu prostrato dalla ondeggiante calca, fosti percosso nel capo da’ tuoi stessi colleghi Satireio e Rufo co’ frammenti de’ sedili. Ed era tanta la superbia de’ misfatti, che Rufo soleva di poi vantarsi di que’ colpi siccome d’impresa gloriosa. In quel tumulto non meno che trecento cittadini rimasero spenti nel comizio. Chiesi invano le tue spoglie a’ patrizi feroci, bramoso di onorarle con pompa funerale. Gettate anzi nel Tevere, scesero al mare ludibrio de’ venti. Non sazio però il Senato per quelle stragi, spinse molti in esilio di poi, altri sottopose alla scure, perché liberi d’intelletto e della giusta causa fautori. Tra’ quali C. Billio, chiuso in una botte co’ serpi, soddisfece l’ira togata che allora inventò queU’abbominevole supplizio. Ma non la tua morte, non quegli esternimi atterrirono la costanza mia, anzi le furono di sprone. Quel giorno in cui si dovea finalmente concedere al popolo il premio acquistato dal suo valore, la mia consorte, presaga ch’io non ritornava a’ suoi amplessi, si lanciò supplichevole alle mie ginocchia sulla soglia domestica stringendo un nostro fanciullo al timido seno. Io però in quell’aurora estrema, e piú chiara di tutte, solo infiammato dal glorioso mio proponimento, serbai freddo il cuore a quegli affetti i quali vincono anche le fiere. Lasciai con severo silenzio quella porta nella quale piú non entrai, e vidi in quella cadere svenuta la misera donna e forse estinta. Non mi rattenne la pietá di lei, non del figliuolo, ma quella della patria al comizio mi guidò. Certo fu maravigliosa la severitá di Bruto, il quale spense i figliuoli suoi per la salvezza di Roma. Pur egli almeno condannò giovani traditori di quella. Io vidi cadere la mia consorte innocente non solo, anzi splendida per bellezza d’animo e di persona, ed ornata di candidi costumi. —