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NOTTE I — COLLOQUIO III


a Glaucia pretore. Mentre questi sedea nel comizio, quegli dolendosi che gli fosse molesta la sua presenza, lo scacciò, e ruppe la di lui sedia curule. Ma di che aver maraviglia? Forse non giunse la invereconda ferocia di quel tribuno ad uccidere per mano de’ suoi sicari, innanzi il popolo ed il Senato, Memmio in procinto di ottenere con la maggioranza de’ voti il consolato? Voi però fino allora freddi testimoni di tante indegnitá, in quel giorno piú non le sofferiste. Quasi destati subitamente da letargo, uccideste, a furore di volgo, Saturnino: fu squarciato a brani, fu il suo teschio portato in trionfo per la cittá, vilipeso in morte quant’era stato insolente nella vita. Cosí le stragi erano pena delle stragi, si correggevano i delitti co’ delitti, ed i rimedi erano una conferma de’ mali. Pur divenuto questo cielo men tristo, da che non era piú oscurato dalle opere di quel tribuno, vi riapparve come un raggio di sole fra le nubi tempestose l’illustre Metello, il medesimo anno in cui io nacqui.

Ed eccomi io stesso, nel principio della vita, spettatore delle civili perturbazioni. Dall’una parte il tribuno Druso eccitava la licenza del volgo, e dall’altra il senatore Cepione sostenea la tirannide degli ottimati. Delle quali contese, quantunque gravi e perniziose, vi fu nondimeno una cagione puerile. Rammenteranno qui taluni ch’erano que’ due nella gioventú loro cosí stretti da benevolenza ignominiosa, che si contraccambiarono le consorti. Ma poi all’incanto di alcune suppellettili vennero a competenza fra loro per la compera di un anello, bramandolo entrambi. E da quella occasione crebbero sempre cosí gli sdegni, che sfogandoli nel comizio trassero la misera cittá nel ruinoso impeto delle contese loro. Nella violenza delle quali il tribuno giunse a minacciare quell’emulo di gettarlo dalla rupe Tarpea, non piú desiderabile meta de’ trionfatori, ma supplizio a chi si opponesse all’ira della plebe. Che se quella fu minaccia ad un illustre senatore, Filippo allora consolo sofferse gli effetti dell’audacia di Druso. Perché sendo a costui molesta quella autoritá, lo trasse in carcere cosí manomesso dal furore plebeo, che gli grondava il sangue dalle nari. Alla vista del quale profferí Druso con feroce sogghigno quel detto amaro: «Non è sangue, ma sugo di tordi», quasi egli scher