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PARTE PRIMA
vinti che da un re, e convenire darti quel nome per poterli debellare.
Giunse perfino la servile codardia a quel maraviglioso eccesso,
che taluno propose in Senato il decreto che ti fosse conceduta
libera dissolutezza nella comune servitú, onde tu potessi
trarre qualunque donna alle voglie tue. Or se queste non erano
prove di tirannico imperio, quali altre aspettar si doveano se
non che il vivere nostro e de’ figliuoli, ed il candore delle consorti
e delle nostre fanciulle, fosse un dono giornaliero della clemenza
tua? Che piú? Vedi sparsa di membra romane Farsaglia, troncata
da’ traditori la testa di Pompeo, erranti i buoni, la patria
in lutto. Sono gli aridi ossami nostri il trono tuo: hai tinto il manto
non di porpora, ma di sangue romano. Intanto le infami lusinghe
ti appellano Giove Giulio e Dio Invincibile: surgono templi,
are, simulacri; sacerdoti offrono libazioni, incensi, sagrifizî alla
tua divinitá ch’io spensi con un pugnale. —
COLLOQUIO TERZO
Cesare espone le corruttele della Repubblica
e sostiene la necessitá della Monarchia.
Tacque Bruto, e Cesare volgendosi alla moltitudine incominciò:
— Se alcuna grazia mai io Giulio Cesare con la mia liberalitá,
co’ miei trionfi e con la grandezza dell’animo ho acquistata presso
voi, io vi prego darmene in morte questo solo guiderdone, che
ora mi ascoltiate benevolmente. Se fui colpevole, giá il ferro di
costui e de’ suoi seguaci appagò le ire vostre con terribile vendetta.
Mi sia pertanto conceduta quella facoltá, neppure negata
a’ malfattori, di proteggere la propria causa con oneste parole. —
Quindi si diresse a Bruto, e in questa guisa prosegui:
— Giacché sponesti le ragioni per le quali mi hai tolto a Roma siccome funesto ingombro suo, devi sofferire ch’io esponga quelle che m’indussero a sollevarmi dalla eguaglianza civile. Delle quali