Le notti degli emigrati a Londra/Maurizio Zapolyi/V

Maurizio Zapolyi - V

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V.


Io intanto correva la puszta.

Avevo traversato quel paese altra volta, con la morte nel cuore e la disperazione negli occhi, andando incontro all’ignoto, con un sole malinconico e smorto. La traversavo adesso, coll’amore nell’anima, colla speranza che cantava nei miei sogni, in cerca di gloria. Sotto il cielo basso, fosco, carico di neve che cadeva a larghi fiocchi e che talvolta si polverizzava sotto l’impeto d’un vento turbinoso, oh come io ricordava che tutto, quattro anni prima, era morto! Il contadino era servo, il signore soggetto. L’Austria era qualcosa di tenebroso, di misterioso, lontana, ma sacra ed inviolabile, le ciglia corrucciate e cariche di [p. 43 modifica]minaccie. Se ne parlava a bassa voce e volgendo il capo da un’altra parte. La donna si occupava della sua casa. La ragazza, tutta infettucciata, pensava al primo bacio che aveva ricevuto, al primo bacio che ella aspettava. Il bambino giuocava rotolandosi nel pantano col porcellino, o si arruffava colle oche. L’aria era muta, o risuonava di monotoni ritornelli. La sciabola e la penna erano oggetti di addobbo. L’ebreo odiava. Il prete cattolico mirava a Vienna ed a Roma.

Ora, il vassallo è uguale al suo padrone, e non paga più tributo; il padrone è cittadino. L’Austria batte, ma il suo prestigio è morto. Il nome di santa patria fa risuonare tutti gli echi. L’Ungherese si batte contro il soldato imperiale, come si batteva una volta contro il Turco. La donna cuce la tunica del suo marito, dei suoi figliuoli, che si arruolano negli honved, attende le notizie dell’esercito, scrive quelle del villaggio o della casa ai suoi cari, spera, prega, piange, teme, si rallegra. La ragazza è ansiosa per le battaglie, ove è il suo amoroso, o dove andrà domani il suo fidanzato. Il fanciullo giuoca al soldato. Gli ebrei, i preti cattolici benedicono la patria, hanno una patria.

Il mio viaggio in mezzo alla puszta, malgrado la solitudine dell’inverno, malgrado l’oscurità della notte, mi parve una festa. Incontravo dovunque, notte e giorno, delle bande di cittadini che andavano ad arrolarsi come volontarii, o a rispondere alla chiamata come coscritti. Dappertutto un sorriso, in nessun luogo il cadavere della speranza colpita a morte dall’insuccesso. In ogni soffio d’aria ove un uomo aveva respirato, una strofa ardente di Petöfy. Ovun[p. 44 modifica]que, delle sciabole, dei pennacchi, dei vaghi vestiti per festeggiare la lotta. Felice chi aveva un fucile od una pistola: tutti avevano un cuore. Felice chi mi poteva ricevere nella sua capanna. Dico capanna: il castello, ahimè! era un altro affare. Una parola che io gettava, passando di galoppo nei villaggi, si propagava di campanile in campanile. Lo scampanío rispondeva alla campana a martello. Ove io gettava un grido, germogliavano soldati.

Incontrai le prime colonne dell’esercito del Sud, che il Governo chiamava a difesa della linea della Tisza. Strinsi la mano a Damjanich, colui che Klapka chiama l’uomo di ferro, l’energico comandante delle formidabili berrette rosse, il 9.° honved. Lasciando il Banato, egli diresse ai Serbi un proclama, in cui loro ordinava di starsene tranquilli, durante la sua assenza, e di rispettare uomini e proprietà, Magiari o Tedeschi, e concludeva:

«Se vi accadesse di non fare alcun caso delle mie esortazioni, se persisteste nei vostri conati sanguinarii e liberticidi, io vi giuro che devasterò le vostre contrade, e v’inseguirò fino a che esisterà sul suolo ungherese un solo Serbo; e allora, perchè non resti in Ungheria la menoma traccia della vostra razza traditora, ucciderò me pure».

Damjanich era Serbo.

Avrei voluto battermi sotto i suoi ordini, se non avessi avuto la fortuna di andare a combattere sotto quelli di Bem.

Seguii il Danubio dall’aspetto terroso e triste, che non era gelato, malgrado la temperatura di 20 gradi sotto lo zero, e rassomigliava ad un filo di rame un po’ ossidato sopra uno scudo d’acciaio riflettente la [p. 45 modifica]luna. Alla fine arrivai alla frontiera della Transilvania, provincia che è una fortezza, circondata dai Carpazii, aperta all’Ungheria soltanto per tre porte: tre gole.

Bem mi aveva preceduto di sei giorni.

Lo raggiunsi, il 22 dicembre, nella direzione di Deez, e gli presentai il dispaccio di Kossuth. Dico male dispaccio, dovrei dire viglietto. Bem, entrando al servizio dell’Ungheria, aveva posto per condizione di non dipendere direttamente che da Kossuth, dal capo del Governo.

— Dall’amico, avea risposto Kossuth. E gli tenne parola.

Kossuth gli scriveva queste semplici righe:

«Amico mio, t’invio un giovanotto, che vuol farsi uccidere, o divenire generale. Ha il diavolo in corpo, cioè un amore nel cuore, ove irradiansi i due più bei occhi di myosotis dell’Ungheria. Fa ciò che puoi per questi due ragazzi. Prendi il capitano per aiutante di campo, e sarai più felice di me; la giovine donna abbraccierà forse la tua testa calva».

Bem fissò su di me i suoi grigi occhi d’aquila. Ci scrutammo scambievolmente. E da quel momento fummo amici.

— Sta bene, disse il generale, vi prendo per mio aiutante. In sella.

L’esercito di Transilvania, diviso in tre corpi, ammontava in tutto a 10,950 uomini d’infanteria, 1335 cavalieri, e 24 cannoni; la metà guardie nazionali. Il generale austriaco comandava a 20,000 uomini di truppe regolari, e a diverse migliaia di leve in massa, Valacchi e Sassoni, provvisti di 60 cannoni, e divisi pure in tre colonne. I corpi ungheresi coman[p. 46 modifica]dati da Baumgarten, da Dobay, da Czetz, avevano incontrato l’inimico in marcia. Il 18, Baumgarten schiacciò Urban, lo sciacallo dell’esercito austriaco. Il 19, Dobay battè Wardener. Il 20, Czetz, che ha scritto la storia di questa campagna, ruppe la terza colonna austro-valacca. Il 23, Bem incontrò la brigata imperiale di Jablonowski, l’attaccò alla baionetta, e la disperse. Ci precipitammo allora verso Kolosvar. La marcia era talmente forzata, che rosicavamo un pezzo di pan nero senza fermarci, e rimettevamo il sonno alla fine della campagna, come diceva Petöfy, che era aiutante di campo di Bem. Arrivammo a Kolosvar, capitale della Transilvania, il 23 dicembre, proprio il giorno fissato previamente da Bem al Comitato di difesa. Gli Austriaci non accettarono la battaglia, e noi entrammo nella città che essi abbandonarono.

— Bene! disse Bem, ecco pagata in scadenza la nostra cambiale.

Egli proclamò un’amnistia generale; ma, mentre lo si cercava per acclamarlo, eravamo nuovamente in marcia. Il 29, avevamo di fronte Urban e Jablonowski, trincerati in una eccellente posizione presso Bethlen. La fucilata e il cannoneggiamento principiarono. Di punto in bianco, Bem esclama:

— Finiamola con codesti buffetti: alla baionetta.

Un’ora dopo, gli Austro-Valacchi erano in rotta.

Bem inseguì Urban; Riczko, Jablonowski. Il 31, Bem e Riczko batterono di nuovo il nemico. Ci fermammo. Le munizioni erano esauste. Le nuove munizioni arrivarono il 2 gennaio. Il 3 del 1849, Bem raggiunse gli Austriaci presso Tihucza, appostati in un passo formidabile. Il combattimento durò tutta la giornata. Alla sera, gli imperiali tagliati a pezzi nella [p. 47 modifica]loro retroguardia, sloggiati, posti in fuga, decimati, presi da terrore, correvano sulle cime delle montagne, ove le capre stesse sarebbero state prese da vertigine, gettando sacchi e fucili; e quelli che non rotolarono nei precipizi, o non si sprofondarono negli abissi di neve, traversarono il confine, e si arrestarono, mezzo gelati, nella Bukovina.

— Che insaponata! sclamò Bem alla sera.

Infatti, il nord della Transilvania era netto d’Austriaci.

— Ragazzi, disse Bem, fa freddo, e non abbiamo nulla. Che diavolo faremmo qui? Vi resteremmo gelati. Andiamo a riscaldarci nel mezzogiorno; Puchner ci darà del fuoco.

Da quindici giorni non avevamo dormito che tre notti, e i nostri pranzi non erano stati sostanziali, che quando avevamo posto la mano sul rancio preparato dagli Austro Serbi. Rispondemmo ad una voce:

— In marcia, babbo.

Chiamavamo il generale: papà Bem.

Puchner si avanzava in cerca dell’esercito ungherese. Lo incontrammo in vicinanza di Galfalva il 17 gennaio. Ci battemmo per cinque ore.

— Ingoiatemi un po’ quei furfanti! gridò Bem.

Allora li caricammo alla baionetta. Puchner fuggì coi rimasugli della sua colonna nella direzione di Nagy-Szeben (Hermannstadt).

— Addosso a quei cani, urlò Bem.

E noi incalzammo i fuggiaschi, la spada alle reni, per quattro giorni. Nevicava, ventava. Nessuna strada. Attraverso burroni, montagne, torrenti profondi come fiumi, i terreni sfondati e rappresi soltanto alla superficie come per tenderci un agguato, i bagagli in [p. 48 modifica]ritardo. Il pane, sempre un problema; senza tabacco.... e mai un lagno! Che voluttà quel far la guerra per un’idea, quando si ha fede in un capo dotato di tutte le grandezze morali! Ci fermammo il 21 davanti Nagy-Szeben, città circondata da un muro di cinta continuato, munita di pezzi da posizione, irta di bastite, di trinceramenti avanzati, difesa da 11,000 uomini, molte guardie nazionali, e 54 cannoni. Bem non aveva sotto i suoi ordini che 4,500 fantaccini e 450 cavalieri, che marciavano da quattro giorni, e 18 bocche da fuoco di piccolo calibro.

— Generale, devo comandare l’assalto? gli domandai.

— Per bacco!

— Non volete dunque attendere i 1,700 uomini che deve condurci Czetz?

— Mettiamoci a tavola, li attenderemo mangiando.

Egli lanciò la legione tedesca e i Siculi. Respinti. Li lanciò ancora. Respinti di nuovo. Li lanciò per la terza volta. Indietreggiarono.

— Avanti gli ussari, gridò Bem, mettendosi alla lor testa egli stesso.

Una grandine di mitraglia ci rovesciò.

— Czetz è arrivato, generale.

— Avanti tutti, allora.

Gli Austriaci escono in massa, con quattro batterie alla testa. L’ala sinistra ed il centro sono sfondati, i nostri fuggono. Puchner insegue. Bem resta indietro con uno squadrone degli ussari di Mathias ed una batteria, ch’egli punta in persona. Puchner si ferma, poi rientra nella città. Bem si stabilisce poco lungi, a Iselindek. Passano otto giorni. Il 30 gennaio, Puchner ritorna, e ci circonda. [p. 49 modifica]

— Che fortuna! sclama Bem, ne avremo fino alla gola. Datevene a crepapancia, ragazzi miei.

Puchner attaccò, ritornò alla carica, poi attaccò ancora. Battuto, respinto, maltrattato, slogato, Puchner fa suonar la ritirata, e rientra alla sera in Nagy-Szeben.

Questi combattimenti di tutti i giorni avevano ridotte le nostre forze ad un numero veramente esiguo. Ci promettevano dei rinforzi, che dovevano essere verso Deva. Andammo verso di loro. Puchner lanciò dietro a noi 12,000 uomini e dei cannoni. Noi eravamo 2,000.

— Cosa si fa, generale? gli chiesi.

— Per dinci! quando non si può difendersi, si attacca, rispose Bem senza levare di bocca la pipa. Fate suonar la carica.

Fummo schiacciati. Il nostro esercito si trovò ridotto a 1300 uomini, 6 cannoni, e punto di munizioni. Arrivammo a Szerdahely. I Sassoni diminuirono ancora le nostre forze, uccidendo i nostri feriti, che Bem faceva sgombrare sopra Szasz-Sebey. Un grido d’indignazione si alzò. Bem non ebbe il tempo di puntare i suoi cannoni. I soldati si scagliarono, bajonetta in mano, sulla città. Mezz’ora dopo, essa era spazzata dai nemici. Bem si stabilì dietro una cinta fortificata, che improvvisò. Puchner non ci lasciò tranquilli neppur là.

— Codesto diavolo d’uomo non mi lascia neppure il tempo d’empir la mia pipa. Va bene. Così facciamo economia di tabacco. Andiamcene, ragazzi.

E sempre lottando, senza esser mai intaccati, arrivammo a Szaszvaros. Bem fu ferito alla coscia da una scheggia di mitraglia. [p. 50 modifica]

Il 7 febbrajo ci arrivò un rinforzo: due compagnie di honved e due squadroni di guardie nazionali a cavallo. Inoltre essi ci fecero conoscere che erano seguiti da 7700 uomini con 28 cannoni. Puchner venne a offrirci battaglia di nuovo; Bem l’accettò.

— Facciamo una burla ai nostri fratelli, diss’egli. Quando arriveranno, troveranno l’affar fatto. Tarde venientibus ossa. Avanti.

Fummo ancora battuti, e perdemmo i nostri ultimi quattro cannoni.

— Quei monelli hanno preso la gotta per via. Andiamo a vedere come sta la cosa.

Bem partì sul momento per Piski. Io solo lo accompagnai.

Trovammo effettivamente i 7700 uomini ed i 28 cannoni. Il 9 febbrajo eravamo di nuovo di fronte agli Austriaci.

Questa battaglia fu drammatica. Gli honved respinsero il nemico, che si avanzava sul ponte di Sztrigy dinanzi la città, poi traversarono il fiume sopra dei banchi di ghiaccio che galleggiavano, e li caricarono. Gli ussari di Mathias indietreggiavano. Bem, malgrado la violenza della febbre che la ferita e la lunga corsa al galoppo gli avevano data, venne a prendere il comando. L’inimico fu respinto in disordine, la cavalleria gli diede la caccia. Ma ecco che ci cacciamo dentro ad un’imboscata. Il nemico prese l’offensiva. Noi avevamo consumato tutte le munizioni.

— Come! quei facchini, gridò Bem, ballerebbero colla musica che abbiamo pagata noi. Alla bajonetta dunque!

Gli Austriaci anch’essi non avevano più munizioni.

La sera, eravamo padroni della vittoria, che era [p. 51 modifica]dubbia al mattino, che ci sorrideva a mezzo giorno, e che ci abbandonava alle tre.

Bem, col suo infallibile colpo d’occhio, vide allora la posizione della campagna.

Puchner non aveva più base alle sue operazioni.

La nostra base, la più sicura, la più favorevole, era il paese dei Siculi, amici nostri, ove avremmo trovato uomini, armi, provvigioni d’ogni fatta.

Bem ordinò all’istante una maravigliosa marcia di fianco. Passammo fin sotto le mura della fortezza di Karolyvar, sotto il fuoco del cannone nemico. Ci arrampicammo per delle montagne coperte di neve, irte di precipizi, sdrucciolanti, a picco sopra voragini che ci aspiravano, circondati da un uragano che ci toglieva il respiro, e soffocava uomini e bestie. Scivolammo sopra dei campi di neve indurita, che talvolta c’inghiottivano, passando per delle gole ove quattro uomini di fronte avanzavano a stento, bloccati dalla tempesta che s’ingolfava col rumore e la forza di una batteria tuonante di cannoni. Valicammo dei torrenti, che trascinavano dei massi di pietra e dei massi di ghiaccio, formando dei turbini traditori, gli uomini ajutando le bestie, tirando colle braccia l’artiglieria, carichi di bagaglio, mal nutriti, vestiti insufficientemente, gelati, senza tende, senza riposo, senza sonno... E cantavamo i ritornelli di Petöfy, che marciava sempre alla testa, e che era primo sempre alla mischia, mentre gli echi della montagna ripercuotevano i viva a papà Bem, e ripetevano la famosa strofa sopra la barba del generale polacco, che Petöfy chiamava «uno stendardo bianco!»

Il 15 febbraio raggiungemmo Medgyes.

Là ritrovai Amelia.