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dubbia al mattino, che ci sorrideva a mezzo giorno, e che ci abbandonava alle tre.

Bem, col suo infallibile colpo d’occhio, vide allora la posizione della campagna.

Puchner non aveva più base alle sue operazioni.

La nostra base, la più sicura, la più favorevole, era il paese dei Siculi, amici nostri, ove avremmo trovato uomini, armi, provvigioni d’ogni fatta.

Bem ordinò all’istante una maravigliosa marcia di fianco. Passammo fin sotto le mura della fortezza di Karolyvar, sotto il fuoco del cannone nemico. Ci arrampicammo per delle montagne coperte di neve, irte di precipizi, sdrucciolanti, a picco sopra voragini che ci aspiravano, circondati da un uragano che ci toglieva il respiro, e soffocava uomini e bestie. Scivolammo sopra dei campi di neve indurita, che talvolta c’inghiottivano, passando per delle gole ove quattro uomini di fronte avanzavano a stento, bloccati dalla tempesta che s’ingolfava col rumore e la forza di una batteria tuonante di cannoni. Valicammo dei torrenti, che trascinavano dei massi di pietra e dei massi di ghiaccio, formando dei turbini traditori, gli uomini ajutando le bestie, tirando colle braccia l’artiglieria, carichi di bagaglio, mal nutriti, vestiti insufficientemente, gelati, senza tende, senza riposo, senza sonno... E cantavamo i ritornelli di Petöfy, che marciava sempre alla testa, e che era primo sempre alla mischia, mentre gli echi della montagna ripercuotevano i viva a papà Bem, e ripetevano la famosa strofa sopra la barba del generale polacco, che Petöfy chiamava «uno stendardo bianco!»

Il 15 febbraio raggiungemmo Medgyes.

Là ritrovai Amelia.