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— Che fortuna! sclama Bem, ne avremo fino alla gola. Datevene a crepapancia, ragazzi miei.

Puchner attaccò, ritornò alla carica, poi attaccò ancora. Battuto, respinto, maltrattato, slogato, Puchner fa suonar la ritirata, e rientra alla sera in Nagy-Szeben.

Questi combattimenti di tutti i giorni avevano ridotte le nostre forze ad un numero veramente esiguo. Ci promettevano dei rinforzi, che dovevano essere verso Deva. Andammo verso di loro. Puchner lanciò dietro a noi 12,000 uomini e dei cannoni. Noi eravamo 2,000.

— Cosa si fa, generale? gli chiesi.

— Per dinci! quando non si può difendersi, si attacca, rispose Bem senza levare di bocca la pipa. Fate suonar la carica.

Fummo schiacciati. Il nostro esercito si trovò ridotto a 1300 uomini, 6 cannoni, e punto di munizioni. Arrivammo a Szerdahely. I Sassoni diminuirono ancora le nostre forze, uccidendo i nostri feriti, che Bem faceva sgombrare sopra Szasz-Sebey. Un grido d’indignazione si alzò. Bem non ebbe il tempo di puntare i suoi cannoni. I soldati si scagliarono, bajonetta in mano, sulla città. Mezz’ora dopo, essa era spazzata dai nemici. Bem si stabilì dietro una cinta fortificata, che improvvisò. Puchner non ci lasciò tranquilli neppur là.

— Codesto diavolo d’uomo non mi lascia neppure il tempo d’empir la mia pipa. Va bene. Così facciamo economia di tabacco. Andiamcene, ragazzi.

E sempre lottando, senza esser mai intaccati, arrivammo a Szaszvaros. Bem fu ferito alla coscia da una scheggia di mitraglia.