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minaccie. Se ne parlava a bassa voce e volgendo il capo da un’altra parte. La donna si occupava della sua casa. La ragazza, tutta infettucciata, pensava al primo bacio che aveva ricevuto, al primo bacio che ella aspettava. Il bambino giuocava rotolandosi nel pantano col porcellino, o si arruffava colle oche. L’aria era muta, o risuonava di monotoni ritornelli. La sciabola e la penna erano oggetti di addobbo. L’ebreo odiava. Il prete cattolico mirava a Vienna ed a Roma.

Ora, il vassallo è uguale al suo padrone, e non paga più tributo; il padrone è cittadino. L’Austria batte, ma il suo prestigio è morto. Il nome di santa patria fa risuonare tutti gli echi. L’Ungherese si batte contro il soldato imperiale, come si batteva una volta contro il Turco. La donna cuce la tunica del suo marito, dei suoi figliuoli, che si arruolano negli honved, attende le notizie dell’esercito, scrive quelle del villaggio o della casa ai suoi cari, spera, prega, piange, teme, si rallegra. La ragazza è ansiosa per le battaglie, ove è il suo amoroso, o dove andrà domani il suo fidanzato. Il fanciullo giuoca al soldato. Gli ebrei, i preti cattolici benedicono la patria, hanno una patria.

Il mio viaggio in mezzo alla puszta, malgrado la solitudine dell’inverno, malgrado l’oscurità della notte, mi parve una festa. Incontravo dovunque, notte e giorno, delle bande di cittadini che andavano ad arrolarsi come volontarii, o a rispondere alla chiamata come coscritti. Dappertutto un sorriso, in nessun luogo il cadavere della speranza colpita a morte dall’insuccesso. In ogni soffio d’aria ove un uomo aveva respirato, una strofa ardente di Petöfy. Ovun-