Le notti degli emigrati a Londra/Maurizio Zapolyi/IV

Maurizio Zapolyi - IV

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IV.


L’uomo che aveva messe le mani al colpo di Stato contro l’autonomia ungherese ed aveva inviato Lamberg, il conte Latour, ministro della guerra in Austria, fu appeso ad un fanale dal popolo viennese nell’insurrezione del 6 ottobre. Moga, che inseguiva l’esercito di Jellachich, il quale marciava su Vienna, avendo esitato di passare a tempo la Leitha, fu alla fine battuto presso Schwechat, in vista della capitale dell’Impero, da Windischgraetz, che aveva già schiacciato Vienna, e che si preparava ora a marciare contro l’Ungheria. La guerra che facevamo in Transilvania contro i Valacchi, i Sassoni, gli Austriaci ed i Serbi, malgrado alcuni scontri brillanti, era, tutto sommato, disgraziata, e l’esercito si ritirava sulla Maros, mentre Schlick invadeva l’Ungheria settentrionale. La nostra causa era seriamente minacciata, la patria seriamente in pericolo. Il Comitato di difesa, che concentrava nelle sue mani tutto il potere esecutivo, si mostrò all’altezza della sua missione; e Kossuth, che lo riassumeva tutto, riempiva già della sua persona tutta l’ombra che aveva lasciata [p. 35 modifica]la Casa di Absburgo, ritirandosi. Si domandarono delle nuove leve di honved — difensori della patria — , e si ebbero più uomini che non s’avessero armi. Si creò una cavalleria, un’artiglieria. I capi tiepidi, incapaci, dubbiosi, furono surrogati: Damjanich prese il posto di Kiss al Sud, Görgey quello di Moga al Nord; Windischgraetz si mise in moto.

Io aveva ottenuto un brevetto di capitano nel mio reggimento, che era stato completato per supplire ai quattro squadroni che, trovandosi in Boemia, non eran riesciti ad evadersi come noi. Io comandava il settimo squadrone staccato presso l’esercito del nord. Görgey mi nominò suo aiutante di campo.

Kossuth, consegnando il comando in capo dell’esercito del Nord al maggiore Görgey, aveva detto all’Assemblea: «Ho tirato un buon numero dall’urna del destino!» Ahimè! Kossuth aveva letto quel numero a rovescio. Io non aveva ancor veduto Görgey. Avevo applaudito quando egli, eseguendo l’ordine del Consiglio di guerra di Csepel, aveva fatto impiccare il conte Zichy che, andando incontro a Jellachich, aveva introdotto l’inimico nella patria. Ma concepii tosto dei dubbi sul suo carattere quando, essendosi disgustato col suo capo Maurizio Perczel, riescì a farlo passare come incapace, e si fece attribuire il merito della presa del corpo di Roth e Philippovich. Quando io lo vidi al suo quartier generale di Pozsony, risentii come un subito colpo al cuore.

Arturo Görgey era militare. Aveva fatto gli studii all’Accademia militare di Tuhn nell’Austria, poi aveva passato cinque anni nella guardia nobile ungherese. Nominato luogotenente in un reggimento di ussari, non avendo i mezzi di avanzare rapidamente, stanco [p. 36 modifica]della vita di guarnigione, diede la sua dimissione, e si ritirò a Praga per studiarvi la chimica. Là, aveva domandato in isposa una ricca e nobile ereditiera, e non avendola ottenuta, sposò la sua istitutrice, una francese. Il suo carattere traspariva di già: ambizione, invidia, rancore, orgoglio, vendetta! Görgey dissimulava poco la feccia del suo cuore, quando poteva farlo senza inconveniente; e così forse vendicavasi della natura che, nella composizione della sua persona, metteva in guardia gli osservatori.

Grande, svelto, sottile, agile, il suo corpo di dandy finiva con una testa di donna, piccola e non bella. Aveva capelli castani, rari, tagliati corti, nell’intenzione di dare più spazio e più lume alla sua fronte scura. I suoi occhi grigi, instabili, irritabili, non avevano quella dietro-cortina degli ipocriti, che copre nell’abisso della pupilla l’abisso dell’anima. Egli li velava con occhiali d’oro, che offuscavano ciò che v’era di petulante in quel viso. Un par di mustacchi magri e sottili, faceva spiccare il pallore ceruleo e l’avida sottigliezza delle labbra, sempre corrucciate, se un sorriso beffardo cessava d’incresparle. Questa fisonomia corta sopra una statura elevata, quei tratti comuni sopra un corpo disinvolto, quel viso ove la natura aveva scritto una idea, ed ove la premeditazione sostituiva una maschera, mi diedero a riflettere. Görgey s’accorse che io l’osservava. E se avesse potuto dubitare che io dirigeva su lui la mia implacabile attenzione, come un microscopio che lo scandagliava nel fondo delle viscere, e notomizzava i suoi pensieri, m’avrebbe certo, alla prima occasione, messo in un posto da essere ucciso sicuramente. Già egli disapprovava la mia condotta verso il colonnello Tichter. [p. 37 modifica]Egli aveva pochissima barba, ed era pallido. Di marziale, solo il contegno e le abitudini. Poco avvicinabile, di maniere sdegnose, temendo rivelarsi avanti il momento e fuor di proposito, egli sorvegliava le proprie parole, fuorchè nell’ironia e nella maldicenza, che aveva molto pronte e colorite. Del resto, dava ai suoi pensieri delle forme poetiche, e non mancava di eloquenza. La sua tenuta rigida imponeva il rispetto. La sua andatura, sicura di sè stessa, grave, fiera, imperiosa, ove l’orgoglio traboccava, era d’accordo colla parola breve e col suono brusco della voce. Egli correggeva coll’arroganza dell’animo e dell’uomo, ciò che poteva mancare di guerriero e di cavalleresco al militare ed al generale.

Con tutto ciò, eccellente cavaliero, sobrio, paziente, d’un bel coraggio personale, ch’egli s’imponeva nelle circostanze decisive, con uno sforzo di volontà. La vista del sangue non lo turbava. Il pericolo altrui lo toccava poco. Egli non lo fuggiva, il pericolo, ma non lo cercava neppure, come avremo occasione di vedere. Non risparmiava le fatiche alle sue truppe, ma le divideva, e dormiva con esse sulla neve con un freddo di 18 gradi sotto il zero Réaumur, senza pranzo dopo un’assenza di asciolvere, e restando senza cena, dopo non aver pranzato. Con lui, si riposava d’un combattimento con una marcia, e d’una marcia con una battaglia. Severissimo nella disciplina, ingiusto soltanto verso i suoi nemici e verso quelli di cui era geloso, che invidiava o temeva. Pieno di ingegno, non sapeva mai riconoscere l’ingegno degli altri, sempre disposto ad impiccolire il merito che l’offuscava, senza generosità insomma, senza nobiltà di animo. [p. 38 modifica]

I soldati lo amavano: essi non scorgevano che la persona; gli ufficiali, eccetto i suoi fidi, lo detestavano, e diffidavano di lui: gli leggevano nel cuore.

Görgey disprezzava tutto quanto non fosse militare. Considerava il civile come un intruso, un intrigante, un imbecille. Kossuth, che l’avea creato, cadeva sul suo cuore abbietto come una goccia d’acido solforico, che brucia senza posa e senza pietà. Görgey sapeva eseguire con molta abilità i piani altrui, ma era incapace di concepirne uno egli stesso. Il suo spirito mancava d’iniziativa, egli non possedeva la bussola dell’indefinito. Dopo una vittoria, non sapeva più che farne. La pletora del successo pesava sopra di lui, e lo rendeva inetto, come l’eccesso dell’amore uccide l’amore. Tutte le sue passioni occulte insorgevano allora, ed egli si consumava nel nasconderle o nel coprirle sotto una forma onesta, se l’esplosione gli preparava un ostacolo. Tutto era virile in lui. Niente era elevato. La sua intelligenza nuotava nella visione delle grandezze le più sfrenate, mentre doveva imporsi una condotta moderata. Egli sentiva tutta la superiorità morale ed intellettuale di Kossuth. L’Ungheria intera accarezzava questa credenza, esprimeva questa convinzione. Görgey intraprese un’opera di tenebre, a capo della quale, smascherando le sue batterie, egli doveva far ricadere il suo paese al fondo d’un precipizio. Ragno del male, egli tesseva la tela del disastro per avvilupparvi un’opera divina, la risurrezione d’un popolo!

Görgey aveva l’anima austriaca. Egli non comprendeva dunque nè la libertà, nè la nazionalità, nè l’indipendenza, nè l’autonomia di una razza, nè la supremazia e la maturanza d’una civiltà. Egli si bat[p. 39 modifica]teva contro l’Austria, non per odio contro un’istituzione o un principio, ma perchè nutriva una rabbia concentrata contro i generali austriaci, e ambiva di surrogare l’Austria in qualche luogo, per poi rimetterla a posto, facendo per sè nell’opera e nell’impero una parte corrispondente all’altezza del servigio reso. L’Austria non si è dessa mostrata generosa per certi meriti, la Casa di Absburgo per certi delitti?

Nel secondo abboccamento ch’ebbi con Görgey, lo compresi tutto. Dissecai il suo pensiero, e lo giudicai. Da quel momento, lo odiai. Egli ne sospettò, e mi tenne presso di sè, per sedurmi, o per perdermi. Ma avrò a riparlarvi di lui.

Windischgraetz, dopo i primi passi, rimase immobile. Egli esitava a impegnare un combattimento, nel quale temeva di restare schiacciato. Nondimeno, quando la Dieta ungherese rifiutò, dopo l’abdicazione del vecchio imperatore, di riconoscere il nuovo imperatore e re Francesco Giuseppe, il maresciallo austriaco fu obbligato ad agire seriamente. Egli si avanzò, in conseguenza, alla testa di 50 a 60,000 uomini. Görgey non ne aveva che 23 a 24,000, sparsi sopra una grande superficie, sulla diritta del Danubio; ed il corpo di Perczel, 5 a 6000 uomini, che doveva raggiungerlo, era ancora sulla Drava. Görgey ordinò la ritirata, ed avvisò Kossuth di questa sua risoluzione. Egli mi chiamò alla sera, e m’ingiunse di partire sul momento per portare a Pesth il suo dispaccio.

— Generale, io gli dissi, sono capitano, e non ho ancora assistito ad una battaglia. Pur ritirandoci, noi ci batteremo certo. Posso chiedervi il favore di restare? [p. 40 modifica]

Görgey, con un sorriso beffardo, mi rispose:

— Non ci batteremo punto. Partite.

Partii.

All’indomani, Görgey aveva cangiato d’avviso. La prima sua ispirazione era, per altro, buona. Egli l’aveva adottata, dietro un Consiglio di ufficiali superiori. Ora eseguiva quella stessa ritirata, sotto la pressione immediata dei battaglioni austriaci, che affluivano da ogni parte e lo circondavano. Onde, la fu una ritirata brillante, ma disastrosa.

L’inverno si mostrava severo. L’immenso piano dell’Ungheria era divenuto una stesa di neve, chiazzata qua e là da paludi traditrici, come quella di Hansag, che inghiottì un quarto della brigata di Leopoldo Zichy. L’atmosfera aveva un colore plumbeo, ove ondulavano talvolta, come vele stracciate dalla tempesta, dei cenci di nebbia sucida, moventisi lentamente, cadenti di botto. Non c’era più di azzurro, che negli occhi elettrizzati dei nostri honved. Faceva un freddo terribile. Le notti erano nere. Non trovavi più traccia di strade, e quelle vicine ai corsi d’acqua, erano sfondate ed impraticabili. Bisognava marciare attraverso i campi, a caso. Le truppe vestite leggermente e troppo cariche compivano delle marcie interminabili, sempre sul chi va là, non prendendo fiato che per respingere l’inimico, non riparando la loro sinistra, senza trovarsi di fronte ad un pericolo a destra. Malgrado i bei combattimenti di Kmety a Pahrendorf, e di Guyon, l’abile e valente irlandese, a Nagy-Szombath, che coprirono la ritirata; malgrado il combattimento di retroguardia a Raab, che si dovette sgomberare, la marcia retrograda continuò. Görgey fu respinto a Babolna, e [p. 41 modifica]Perczel subì una disfatta a Moor, che si sarebbe potuta cangiar in vittoria, se Görgey fosse accorso in suo aiuto. Egli non volle.

Il 1.° gennaio, la Dieta abbandonò la capitale, e trasferì la sede del Governo a Debreczin, dietro la Tisza, in mezzo ad un’immensa pianura, ove i villaggi, completamente magiari, sono molto disseminati. L’8 gennaio a mezzogiorno, la retroguardia ungherese sgombrava anche Buda-Pesth. Alcune ore dopo, l’esercito austriaco entrò nella città, e la bandiera giallo-nera prese il posto dei tre colori nazionali, bianco, rosso e verde come quelli dell’Italia.

Presentandogli il dispaccio, vidi per la prima volta Kossuth. Questo abboccamento durò un istante, ma fu caratteristico. Amelia gli aveva parlato di me, come una donna entusiasta parla di un bel giovane che ama, e Kossuth aveva bevuto il mio elogio nella di lei parola risplendente come una strofa di Vittor Hugo, sgorgando dalle labbra della più bella fra le Ungheresi. Gli domandai di lasciare Görgey, e di essere inviato come aiutante, o perfino come semplice soldato, al generale Bem, che operava in Transilvania.

— Perchè ciò?

— Perchè con Bem il soldato si batte, e con Görgey si ritira; perchè Bem è un patriota fedele oggi, fedele sempre, e Görgey mormora oggi, e tradirà domani.

Kossuth assunse un’aria severa, e si torse i mustacchi. Poi disse:

— Voi meritate di esser punito per parlare così del vostro capo.

— Accetto il castigo. Soltanto vi prego di ag[p. 42 modifica]giornarlo a sei mesi. Se a quest’epoca la mia profezia....

— Basta così. Andate ad attendere gli ordini del ministro della guerra, e tenetevi pronto per partire nella notte.

Kossuth cadde in una profonda meditazione. Io uscii lentamente.

Tre ore dopo, io partiva per la Transilvania, come aiutante di campo del generale Bem.

Non ebbi il coraggio di andar a vedere Amelia. Le scrissi.

Il proclama di Görgey, datato da Vaez il 6 gennaio, venne a provare a Kossuth che io aveva giudicato rettamente il carattere di quel generale. Görgey si ribellava contro l’autorità della Dieta.