Le melodie popolari romane

Alessandro Parisotti

1890 Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf Le melodie popolari romane Intestazione 14 luglio 2024 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Il volgo di Roma


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LE


MELODIE POPOLARI ROMANE.


Invitato a pubblicare in questa raccolta qualche ricerca sulle melodie popolari romane, mi sembra assai opportuno prendere le mosse da un saggio datone da me alle stampe, alcuni anni addietro, in unione del chiarissimo amico prof. Francesco Sabatini,1 come preludio di quanto mi occorrerà esporre su questo, che fu sempre fra i più simpatici oggetti dei miei studi musicali. E però brevemente mi farò ad accennare alle pubblicazioni, che vennero alla luce fino ad oggi su questa materia, così trascurata dai musicisti in particolare e in genere poi da tutti gli scrittori del nostro paese. Mentre infatti vediamo le splendide pubblicazioni fatte in Inghilterra dal Boosey2 e il [p. 56 modifica]meraviglioso lavoro del danese Berggreen 3 nel quale si studiano a centinaia i canti popolari di quasi tutti i paesi del mondo; dobbiamo purtroppo constatare che quasi nessuno degli italiani volse il suo ingegno a questa materia e che primi, e quasi soli ad occuparsi delle nostre melodie, furono gli stranieri. Il primo infatti che scrisse di melodie popolari romane fu Wolfango Goethe. Nel suo viaggio in Italia4 troviamo una melodia da lui intesa cantare a Roma da un fanciullo cieco suonatore di arpa.5 Questa melodia è adattata alle parole:

Gurrugiùm a te! gurrugiù!
Che ne vuoi della vecchia tu?...

Sappiamo che, tornando il Goethe per la seconda volta a Venezia, fu maravigliato dal non sentir più cantare dal popolo le strofe del Tasso. 6 Il tempo aveva fatto perdere quell’uso, e però non ci stupisce che il tempo stesso possa aver fatto dimenticare al popolo la melodia che il sommo poeta tedesco gli attribuisce circa un secolo fa (a. 1786), mentre con qualche variante egli ne ha ancora mantenuto le parole. Oggi al [p. 57 modifica]certo la melodia quale venne scritta dal Goethe non trova riscontro in alcuna delle viventi, nè ci può far supporre una somiglianza con alcuna delle melodie conosciute. Ciò che si deve peraltro osservare si è il suo carattere quasi sacro, e però antico, che maggiormente si svela nella cadenza finale, della quale occorrerà ancora parlare più appresso. Pertanto prima di inoltrarci nell’esame di queste ed altre melodie, cade opportuno avvertire che la melodia popolare, nata in cuore del popolano e sospinta sulle sue labbra da questo o quello affetto, ha sempre fluito libera da qualunque legame. Assegnare però ad essa un ritmo esatto, o più un accompagnamento, è cosa sempre difficile, rade volte ben riuscita. E riguardo al ritmo, non sempre può assegnarsene uno esatto e ben figurato, senza contorcere il libero pensiero della melodia, la quale, concepita da chi non sa di ritmo e di figura, non ha altra norma nel suo cammino all’infuori del sentimento da cui fu da prima originata. Il medesimo diremo dell’accompagnamento od armonizzazione della melodia popolare.

Tai canti per la massima parte sono creati ed eseguiti senza l’aiuto di istromenti, ma lasciando tutta la libertà alla forma ed alla espressione del sentimento. Qualunque volta la voce si unisce ad una chitarra, ad un organetto o simili, ciò accade per mero sostegno della intonazione, non mai perchè l’istromento eseguisca un perfetto [p. 58 modifica]basso armonizzato e ritmico, siccome il Goethe e molti altri con lui hanno creduto pubblicare. Ora in che modo può costringersi il canto popolare nei legami di una successione armonica ben condotta (come quella riportata dal Goethe) senza o togliere la verità e la freschezza alla melodia, o cadere negli sconci, che tanto di sovente appariscono? Ed in questo è appunto caduto il Goethe medesimo allorchè, nella cadenza già citata più sopra, fu costretto a far minore la terza di un accordo di dominante, che discende sulla tonica come finale risoluzione.

Questa inesattezza avrebbe egli al certo evitato, se avesse lasciato al popolano la cura di cacciarsi d’impaccio colle regole armoniche, mediante due o tre accordi della sua chitarra, ovvero se avesse considerato che quella melodia aveva probabilmente avuto base ed origine nelle tonalità del canto fermo, e che però, piuttosto che riguardarla come scritta in una delle nostre tonalità minori, doveva ascriversi forse a corruzione di antico tono plagale.

Molti anni dopo il Goethe, un francese, il Didier, poneva in luce alcune melodie de’ canti7 della campagna di Roma.

Appresso al Didier troviamo un altro straniero, il Blessig, che pubblica nella sua raccolta Römische Ritornelle8 [p. 59 modifica]una melodia la quale, a suo parere, dovrebbe accompagnare le parole dei ritornelli romani. Codesta musica, scritta in una sola chiave (elogio dovuto all’autore), comincia con un lunghissimo preludio, che, secondo l’avvertimento dell’autore, dovrebbe essere eseguito sempre a piacere regolando secondo la voce, e prosegue poi la melodia del ritornello posta sopra le parole:

Mi sento il core ferito ferito,
Tutto di sangue abbagnato abbagnato,
Quest’è la bella mia che m’ha tradito.

In questa pubblicazione il preludio ha qualche cosa di comune colla melodia della tarantella piuttosto che del ritornello, salvo poi il caso che essa non sia nè l’una, nè l’altro. La musica posta sopra le parole è affatto immaginaria, e rammenta lontanamente il ritmo del sonetto.

Più fedele del Blessig troviamo l’inglese William W. Story, quando nel suo Roba di Roma9 riporta il canto dei pifferari. In questo canto, come più volte avemmo occasione di osservare, la zampogna che regge il basso armonico ha per nota grave la quinta del tono e le regge come pedale dal principio alla fine. Per tal modo il canto trovasi addirittura basato in 6/4, e su tale accordo comincia e finisce; il che, per quanto contrario alle buone regole, non manca di una [p. 60 modifica]certa originalità, e forse serve mirabilmente a quel colore misterioso, semplice e sacro, che presenta tutta la canzone. In essa è da notare quel tratto (fedelissimamente riportato dallo Story) ove, finita la strofa del canto e ripreso il ritornello dalla zampogna, sopraggiunge il piffero con un gruppetto ad una nota acuta (un fa nello Story), e forma quasi un contro soggetto, producendo in unione al pedale di quinta un’armonia piena di originalità, e non priva di leggiadria, benchè sopraccarica di quinte e di moti irregolari. In complesso la pubblicazione dello Story per quel che concerne la parte musicale è sufficientemente esatta, se vogliansi eccettuare pochi casi in cui pone non troppo regolarmente le sillabe sotto le note, o fa qualche lievissima variante all’andamento della melodia.

Dopo questi stranieri, che prima di noi si occuparono dei nostri canti popolari, passeremo rapidamente in rassegna le poche pubblicazioni di tal genere fatte in Italia. A nostra cognizione esse non sono che due. La prima, venuta in luce dallo stabilimento F. Lucca di Milano abbastanza recentemente, fu ripresa, meno poche aggiunte, da una più antica edizione eseguita litograficamente in Roma nel 1840 circa, e che ora non ci fu possibile rinvenire. La collezione Lucca ha per titolo: Canzoni e balli popolari romani. Nel fare questa pubblicazione crediamo che l’editore abbia voluto offrire un passatempo agli [p. 61 modifica]amatori di musica, piuttosto che una ricerca artistica del vero. Infatti, mettendo da parte la inesattezza con cui furono riportati quei canti, essi sono esposti per la maggior parte con preludî e forme ritmiche di accompagnamento e buone armonie, e cadenzare giustissimo e altrettali pregi e risorse che offre l’arte musicale, ignorata affatto dal popolano inventore della melodia. E però questa pubblicazione è da noi considerata solo quale una collezione di melodie popolari ridotte ed esposte agli amatori di musica.

La seconda pubblicazione italiana è quella fatta dal R. Stabilimento Ricordi di Milano, ed ha per titolo: Canti popolari romaneschi, raccolti e corredati di accompagnamento di pianoforte da Filippo Marchetti. Nelle note poste in fine del suo volumetto l’autore fa osservare come egli «nel raccogliere e coordinare questi canti popolari romaneschi ebbe particolarmente di mira di nulla aggiungervi del suo; e nel mettervi l’accompagnamento di pianoforte ebbe cura di non alterarne il carattere e la originalità con malintese armonie»10. Poi sparge dubbî sopra l’origine veramente romana di alcuni di quei canti e specialmente di quello intitolato: Il cerchio, e in tale asserto la nostra opinione consoliderebbe sempre più la sua affermazione. La prima canzone, La treccia bionda, egli espone usando un tempo misto di 12/8。 e 9/8 per non [p. 62 modifica]contorcere il pensiero popolare, e tale riproduzione è esattissima. Così anche è esatto il canto n. 2, L’occhio morello. Non siamo per altro di ugual parere nel canto n. 3, Lascia er paino,11 in cui egli ha fatto una piccola modificazione prolungando due note per accomodare il ritmo. Egli avverte questa libertà presa nella annotazione n. 3.12 Dove è veramente utile ed esatta la sua ricerca si è nell’improvviso Er passagallo,13 ove ritrae con fedeltà abbastanza scrupolosa l’interessantissima melodia che accompagna le ottave degli improvvisatori. Quivi tutto è al posto, e non dubitiamo che molta fatica abbia egli durata a rendere quel canto, difficilissimo nella parte ritmica. In una sola cosa abbiamo opinione contraria a quella del valente maestro, ed è nell’aver adattato al pianoforte gli accordi della chitarra per accompagnare il canto. I lettori già conoscono la nostra opinione su questo soggetto, e sanno che non vorremmo quasi mai porre in iscritto gli accordi che il popolo fa accompagnandosi.14

[p. 63 modifica]E poi, quelli che ha posto il Marchetti, sono veri esattamente? La cadenza finale in ispecie riproduce l’armonia popolare? O non sono piuttosto dell’autore del fascicolo, che del popolano? Tanto egli che i leggitori possono argomentare la nostra risposta. Ad ogni modo la raccolta del Marchetti, ingegno elettissimo, è una dotta ricerca, ed è la più accurata ed esatta che sia stata mai pubblicata su questo oggetto.

Questo è tutto quanto ci offre la letteratura musicale sopra le canzoni del popolo romano, e forse la scarsezza di trattazioni di questo genere, come fu a me sprone a seguire questi studî, ne farà meno discara la lettura agli amatori di tali ricerche.

Prima per altro di imprenderle non sarà fuori di proposito accennare agli istrumenti di cui si serve il popolo per accompagnare le sue melodie e farò menzione, fra molti, di quelli a cui si ristringe il più comune uso moderno. Fra gli istrumenti a corde tese sono: il mandolino, la mandòla, la chitarra; fra quelli a percussione prendono posto: il tamburello, le nacchere o castagnette.


[p. 64 modifica]Il mandolino, accordato all’unisono del violino d’orchestra, è istrumento oggimai troppo generalizzato, perchè se ne abbia a tener parola.

La mandòla, grosso mandolino composto di quattro corde doppie, accordate un’ottava sotto al detto istrumento, si suona come quello.

La chitarra (francese) ha sei corde dal grave all’acuto accordate così: mi, la, re, sol, si, mi. La corda più bassa è unisona al mi del violoncello in chiave di fa, un taglio in testa sotto le righe. Si suona pizzicando le corde colla destra. D’ordinario il pollice suona le tre corde più gravi. Alcuni suonatori hanno aggiunto a queste un re più basso, fuori della tastiera, all’ottava della quarta corda.

Il tamburello, specie di cerchio di legno con pelle tesa al di sopra, ed aggiuntevi nel giro lamine di ferro sottili e mobili, si suona colla estremità delle dita della destra, mentre si agita a tempo colla sinistra. L’uso di tale istrumento nelle feste e nei sacrifizi è antichissimo, e ne fanno menzione Ateneo, Catullo, s. Agostino, il Boccaccio nelle Metamorfosi ed altri. Serve a marcare il ritmo in ispecie nel ballo.

Le nacchere, anticamente dette acetabula, sono due dischetti di legno incavati e resi mobili fra di loro da una cordicella. Si suonano agitandole colle mani. Eusebio, citato dal Boulenger,15 le [p. 65 modifica]chiama κρεμβαλίζειν. Oggi, come anticamente, servono per marcare il ritmo.

Chiudo queste brevi osservazioni accennando ad una memoria di musica popolare dello scorso secolo, che si trova nella dotta e pregevole opera: Dell’origine e delle regole della musica di D. Antonio Eximeno, fra i pastori arcadi Aristosseno Megareo, pubblicata in Roma coi tipi di Michel Angelo Barbiellini nell’anno 1774. L’autore, dopo aver lodato la nativa disposizione per la musica della nazione italiana, ed asserito non esservi angolo dell’Europa così rimoto ove non si trovi qualche musico o sonatore italiano,16 non resiste al desiderio di pubblicare alla fine dell’opera, fra le altre melodie popolari rare e curiose,17 un aria da ballo, che egli intitola: Tamburro trasteverino, e che qui riproduco, non perchè essa racchiuda un grande interesse, o accresca lume al mio lavoro, ma unicamente a titolo di curiosità musicale. Questa piccola melodia, non priva di una certa grazia, deve essere stata probabilmente posta sopra parole, che sfuggirono all’Eximeno e che io non saprei indicare. Nè si può spiegare il titolo di Tamburro trasteverino appostole, perchè in essa non si trova quel ritmo uniforme e ben distinto, che necessariamente deve essere la principale caratteristica delle melodie fatte per [p. 66 modifica]eseguirsi o accompagnarsi con quegli istrumenti, che si limitano ad indicare la misura del tempo. Forse il canto è assai antico e si lasciava andare liberamente, sopra un accompagnamento uniforme, che stabiliva il ritmo quasi indipendentemente da quello della melodia: il che del resto, nel fatto di canzoni popolari, non è un fatto nuovo.

Tamburro trasteverino.


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Al presente studio seguirà la pubblicazione di melodie popolari romane da me raccolte, colla maggiore esattezza, che mi fu possibile, dalla bocca dei nostri popolani. Non darò che una sola strofe di ciascun canto, ripetendosi la melodia, come è uso, ugualmente in ogni strofa.

[p. 67 modifica]Alla notazione, eseguita sopra una sola riga senza alcuna forma di accompagnamento e colla massima libertà di ritmo, unirò note comparative, che serviranno ad illustrare l’espressione musicale del sentimento popolare.

  1. Saggio di canti popolari romani, Roma, tipografia Tiberina, 1878, p. 55.
  2. Songs of Italy, Germany, Scotland, ecc., London, Boosey and Co.
  3. Folke-sange og melodier, Copenaghen, C. A. Reitzels.
  4. Ital. Reise, Stuttgart, 1870, II, 161.
  5. «Um so viel mehr munderte ich mich über eine Romanze, welche ein blinder neapolitanischer Knabe, der sich in Rom herum führen liesz, einige Wochen sang, deren Inhalt und Vorstellungsart so nordisch als möglich ist».
  6. Op. cit., I, 158.
  7. Campagne de Rome, Paris, Labitte, 1842.
  8. Leipzig, 1860.
  9. London, 1875.
  10. P. 26.
  11. P. 6.
  12. P. 26.
  13. C. n. 6, p. 12.
  14. Contrariamente a questo nostro avviso, l’egregio amico L. A. Bourgault-Ducoudray ha pubblicato un dottissimo opuscolo dal titolo: Mélodies populaires de Grèce et d’Orient, il quale contiene trenta canti popolari orientali e greci, da lui raccolti ed armonizzati. Tali melodie sono sotto ogni aspetto interessantissime e fedelmente riprodotte, poichè la scienza armonica del dotto raccoglitore è sempre ovunque subordinata al canto ed all’espressione popolare, tanto nel ritmo quanto nella costituzione modale; riguardo alla quale egli ha seguito scrupolosamente l’andamento dei canti, per la maggior parte basati sulle tonalità della musica antica. Così l’armonia nulia toglie, e forse aggiunge un tanto, al carattere spiccato di quelle melodie. Il Ducoudray è, a nostro parere, il più erudito musicista di quanti hanno raccolto canti dalla bocca del popolo.
  15. De Theatro, c. 9, 1. II.
  16. C. iv, p. 443.
  17. Egli pubblica una melodia inglese, una francese, due canadesi, una indiana, una cinese, una tedesca ed altre.