Le colpe altrui/Parte I/Capitolo XI
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XI.
Bakis Zanche visse ancora sette giorni. Le forze del suo corpo gigantesco lottavano per trattenere l’anima che gli si sbatteva dentro come un uccello ansioso di volarsene via. Nelle soste del male voleva sempre Vittoria accanto al suo letto e chiamava i servi e dava loro ordini per insegnarle come si faceva a comandarli.
Un giorno le parlò a lungo del predio di Santa Maria verso il mare, raccomandandole il vecchio fattore.
— Non cacciarlo via: anzi manda qualche volta un servo ad aiutarlo. Il luogo è bello, fertile: va a visitarlo, quando c’è la festa della chiesetta lì accanto, in primavera. Vedrai: in maggio ci sono già le susine mature.
Ella ascoltava e taceva, sempre più magra, con gli occhi infossati e come coperti da una nuvola: il suo affanno maggiore era quando il vecchio, ripreso dal delirio, parlava con Andrea come fosse vivo e questionassero ancora. Egli non si illudeva, no; sapeva che la morte di Andrea era stata volontaria, ma l’attribuiva solo ai loro dissensi di famiglia.
Il rimorso rodeva Vittoria: quando egli le stringeva la mano, era tentata a inginocchiarsi e gridare la sua colpa; si vinceva per non farlo morire disperato, e di null’altro le importava: il suo spirito vagava lontano dalla terra come una piuma sospinta in alto fra le nuvole dal vento burrascoso, ed evitava anche il frate, il quale d’altronde non le rivolgeva mai la parola. Che dovevano dirsi?
Una sera Pancraziu s’affacciò silenzioso all’uscio chiamandola con un cenno del dito.
— Mikali è giù al portone e vuole sapere come sta suo padre — le disse sottovoce.
— Come Dio vuole — ella rispose a voce alta. — Digli che vada via e non torni più.
Pancraziu era troppo prudente per riferire tutte le parole di una donna; e Mikali continuò ad aggirarsi attorno allo stazzo dando anche qualche occhiata da padrone alla vigna e all’ovile abbandonati in mano dei servi.
Il martedì nel pomeriggio il dottore fece chiamare Vittoria in cucina; contro il solito non dimostrava fretta, anzi, seduto sulla panca al posto di zio Bakis, si puliva le unghie con un coltellino di tartaruga.
— Ebbene, che cosa pensiamo?
— Che cosa? — domandò Vittoria con la sua aria sbalordita.
— Bisognerebbe operare il malato: estrargli i calcoli dal fegato.
— E così guarisce?
— Subito, brava! Senza l’operazione muore di certo fra poche ore: operandolo ci sono novantanove probabilità che muoia lo stesso e una che si salvi. Perchè non tentare?
Vittoria chiamò zia Sirena.
— Che ne dite voi?
La vecchia le fu grata dell’attenzione; ma corrugò la fronte guardando minacciosa il dottore.
— E alla sua età vuole squartarlo come un agnello? Maledetto il demonio, no, no, Vittoria non permetterà tanto scempio...
— Sante donne, c’è una probabilità che si salvi...
Vittoria si torceva le mani.
— E quando s’è salvato? Che sarà la sua vita? Dopo la disgrazia... che sarà?... Lo sento io, quando parla in delirio: il suo male è nel cuore... Beato lui che se ne va!
Il dottore la guardava, col coltellino di tartaruga in mano.
— Brava! Così parli? Bada che si tratta di un caso di coscienza.
— E perchè domanda a me allora? Si rivolga ai parenti...
— Egli non ha parenti — disse la vecchia fieramente. — Tu sei tutto, adesso, per lui: tu devi decidere, e tu non devi lasciarlo squartare.
Il dottore le diede uno spintone.
— Andate, vecchia testarda, non dite sciocchezze.
Poi attirò Vittoria accanto a lui sulla panca, le prese una mano e mentre cercava di convincerla a fare operare il malato l’attirava a sè guardandola con occhi carezzevoli.
— Te lo dico per il tuo bene, Vittoria, perchè non vorrei che i parenti ti rinfacciassero poi di non aver tentato di salvarlo. Lo sai che ti ho voluto sempre bene.
Quando glielo aveva detto? Pure turbata, ella capì ch’egli le faceva la corte per l’eredità e si scostò diffidente.
— Ebbene, — disse — domandiamolo a lui: se egli desidera l’operazione, io non mi oppongo.
Rientrò e riprese il suo posto presso il malato che smaniava vaneggiando.
— Tre giorni, Andrea? Ebbene, siano tre; ma lasciami pensare. Ho le idee che mi scappano via come uccellini... Tu intanto va da Vittoria; va: farai bene ad andare da lei...
Ella aspettava un momento di lucidità per chiedergli se voleva l’operazione; con la fronte sulla mano, gli occhi pieni di lagrime, le pareva di vederlo già steso su una tavola, col ventre squarciato e il sangue che colava giù come dalle viscere di un bove ucciso. Come, come domandargli l’orribile consentimento? Ella non osava; ella tremava di spasimo, e desiderava piuttosto che egli morisse.
Verso sera la febbre diminuì; pallido, col petto umido di sudore, le mani tremanti abbandonate sulla coltre, egli pareva tornasse da un mondo spaventoso e si riposasse ancora atterrito; Vittoria allora reclinò il viso sul viso di lui, aprì le labbra ma non potè proferire l’orribile domanda. Egli la guardò. Quegli occhi! Ella non li dimenticò più: erano ridiventati infantili, tristi e stanchi, e imploravano soccorso pur disperando di ottenerlo.
Ella si alzò, andò nella camera ch’era stata di Andrea e si buttò per terra piangendo e mordendo il limitare dell’uscio; e questa crisi le fece bene; la mente le si schiarì, come il cielo dopo l’uragano; la volontà le tornò, tutto si fece limpido intorno a lei.
Disse al dottore che intendeva lasciar morire in pace il vecchio e tornata presso di lui gli prese la mano fra le sue, aspettando...
Le ore e i giorni passarono. La gente entrava in punta di piedi nella camera del moribondo, e quelli che uscivano dallo stazzo vedevano Mikali aggirarsi continuamente là attorno come un cane scacciato.
Vittoria, con la mano del malato nella sua, aspettava. Aspettava, ma nello stesso tempo le sembrava di camminare con lui verso un luogo di oblio, guidata da lui come una bambina; e andavano, andavano, e Andrea li aveva preceduti per preparare ogni cosa per il loro arrivo nella nuova dimora. Ma il sabato verso un’ora Bakis Zanche ritirò a un tratto la sua mano e sbadigliò piano piano come un poco annoiato di tutto e di tutti. Ella si volse a guardarlo e diede un grido: egli aveva abbassato a metà le palpebre e sulla sua bocca rimaneva un’espressione di disgusto: ah, se n’era andato, lasciandola sola sull’orlo della via.
*
Fino alla strada Mikali sentì l’urlo delle donne e i canti e le nenie funebri delle prefiche riunite nella cucina dello stazzo: non osò entrare e per scusarsi di fronte a sè stesso della sua debolezza corse via e andò ad avvertire la madre.
Vittoria e zia Sirena intanto lavavano e vestivano il cadavere, parlando fra loro a bassa voce come per non svegliarlo.
— Questa mano! — disse Vittoria, lavando dito per dito con uno straccio insaponato la mano ancora molle ma vuota del morto. — Quanto l’ho tenuta, in questi giorni! Mi parrà sempre di stringerla, povera mano.
Parlava calma, un poco stanca però e come assonnata.
— Ha finito di soffrire: così finiremo anche noi, vero, zia Sirena? L’importante è di seguire la via dritta davanti a noi, come egli l’ha seguìta, a costo di morirne. È vero, zia Sirena?
La vecchia piangeva silenziosa sconsolata, ma le parole di Vittoria le sembravano più che saggie, e tutta la sua ammirazione e la sua devozione da oltre mezzo secolo nutrite per Bakis Zanche già si riversavano sulla nuova giovane padrona.
— E adesso saranno assieme, col figlio — riprese Vittoria mettendo le mani del morto una sull’altra sul petto che non ansimava più. — Anche Andrea non sapeva mentire. Così, povere mani, state così, in pace. Più il freno, più il bastone, più il bicchiere, più il libro... nulla più toccherete... E anche le nostre mani un giorno non toccheranno più nulla...
D’improvviso un’onda di sangue le affluì alla testa; sentì un capogiro, non parlò più: la visione di Mikali sul puledro indomito, con la corda stretta dalle dita vigorose, le era passata davanti radiosa e terribile sullo sfondo di quel luogo di morte come una saetta in una notte tenebrosa.
— No, no, — pensava curva a lavare i piedi del morto neri e callosi come radici di lentischio — io non voglio più vederlo. Tornerò ad alta notte a casa mia, per non incontrarlo, e mi chiuderò dentro come in un monastero.
La visione però la perseguitava; ed ella fu tentata di sciogliersi i capelli per asciugare i piedi del morto e farsi perdonare.
E se era vero che egli le aveva lasciato il suo patrimonio, con l’obbligo di abitare lo stazzo?
— No, no, padre — gli disse, chiudendogli ancora le palpebre che si ostinavano a riaprirsi. — Voi non avete fatto questo! Voi volevate bene alla vostra piccola Vittoria, alla vostra tortora... no, no... Che peso terribile sarebbe...
E pianse, finalmente; e le sue lagrime caddero sulle palpebre del vecchio e parve ch’egli piangesse dopo morto.
*
I parenti erano già tutti radunati per la lettura del testamento, in una grande stanza terrena che serviva per pulire il frumento dopo la raccolta o per banchetti in caso di feste straordinarie. Vittoria entrò, sedette in un angolo e guardò spaurita il notaio che coi gomiti sul tavolo, il capo chino, si batteva la punta delle dita sul cranio calvo.
— Aprite un poco la finestra, — egli disse sollevando gli occhi. — Si può cominciare.
Allora zio Bakis Pinna, cugino del morto, si alzò pesante e selvaggio e d’un colpo spalancò la finestruola; la luce viva verdognola dell’orto illuminò la stanza e Vittoria s’accorse che gli occhi di tutti i convenuti la fissavano acutamente. Ah, se quegli occhi fossero state palle, ella sarebbe caduta crivellata di ferite.
Tutti i parenti erano là, ricchi e poveri, uomini e donne; tutti, da zio Bakis Pinna, ricco proprietario di bestiame, a Prededdu Zanche, nipote del morto, che sebbene latitante, accusato di omicidio e di rapina, era venuto al convegno e guardava Vittoria con curiosità e malizia, ma benevolmente, facendole dei segni con la testa e con la mano; segni a cui ella rispondeva con un lieve sorriso degli occhi, alquanto turbata per la grande rassomiglianza del giovine bandito con Mikali.
Le donne, chiuse nelle loro sottane scure buttate sul capo, sedevano in fila per terra, e aspettavano pazienti sebbene non sperassero nulla.
Il notaio continuava a battersi le dita sul cranio: chi aspettava? forse i servi: questi infatti giunsero, e Pancraziu gli si avvicinò e gli disse qualche cosa sotto voce. Allora egli parlò, senza guardare nessuno:
— Avevo fatto avvisare la vedova Zanche e suo figlio Mikali; ma essi rinunziano ad assistere all’apertura del testamento e quindi possiamo cominciare. Prima però devo avvertirvi di una cosa. Voi tutti sapete che Bakis Zanche e sua moglie Marianna erano separati legalmente, per consenso di entrambi. Il figlio Mikali nacque dopo che la donna fu cacciata via dal marito, nè questi volle mai riconoscerlo. Mikali fu inscritto sui registri dello Stato Civile come figlio di padre incerto ed egli nè altri mai si curarono di regolare in altro modo il suo stato di nascita.
Nessuno parlò. Allora il notaio tossì, alzò la voce:
«In nome di Sua Maestà il Re...».
Prededdu Zanche fissava Vittoria ammiccando; ma Vittoria vedeva Ignazia la serva guardare il giovane e poi lei e poi di nuovo il giovane, e chinò la testa e non sollevò più gli occhi.
A misura che il notaio leggeva, tutta l’attenzione di lei era attratta dalle parole del testamento: le pareva che lo stesso spirito di Bakis Zanche parlasse attraverso il foglio scritto, e una pena, un terrore, un senso di peso grave la piegavano.
Sì, le voci che correvano nello stazzo erano vere: Bakis Zanche la nominava sua erede. Le imponeva di tenere la serva Sirena per tutta la vita nello stazzo, continuando a compensarle il suo servizio in ragione di lire sette al mese, di regalarle due agnelli a Pasqua e due porcellini a Natale; di tenere i servi attuali finchè servivano fedelmente; di ammazzare una giovenca e distribuirne la carne ai poveri; di far celebrare tutti gli anni la festa di Sant’Isidoro, il dieci maggio, con messa cantata, processione, corse di cavalli e puledri; di pagare i canoni e i legati gravanti sulle sue terre; di collocare due lapidi, una per lui una per Andrea, nel camposanto del paese.
Alla moglie, da cui era, come aveva avvertito il notaio, separato legalmente, lasciava tuttavia l’usufrutto d’un terreno attiguo allo stazzo Zoncheddu.
Di Mikali non faceva parola.
Quando il notaio ebbe finito, Vittoria sollevò gli occhi grandi spauriti, li volse intorno, li riabbassò e balzò in piedi tremante.
— Vorrei dire una parola...
Nessuno rispose; allora ella disse:
— Mikali Zanche ha diritto più di me...
— No, — replicò freddo il notaio — egli non ha diritto. Non si è curato mai di richiedere la paternità di Bakis Zanche, nè da questi è stato mai riconosciuto. La madre lo ha fatto presentare allo Stato Civile come figlio di padre incerto, dichiarando che al tempo del concepimento era già separata dal marito. Per impugnare il testamento, Mikali dovrebbe far causa, dimostrando la paternità di Bakis Zanche.
Vittoria si torse le mani disperata. Due donne sedute accanto a lei s’alzarono per sorreggerla.
— Io vorrei... vorrei... — ella aggiunse, ma la madre le fu davanti, zia Zizza di dietro, spaventate.
— E lasciatemi parlare!...
— E chi ti tura la bocca? — gridò zio Bakis Pinna rozzamente. — Parla!
— Vorrei rinunziare.
Un mugolìo risuonò intorno; Prededdu Zanche soltanto rise, un riso squillante, poi balzò accanto a Vittoria scostando le donne, le strinse il braccio, le pose il viso sotto il viso per guardarla meglio.
— Cugina mia! Guardami!
Ella scuoteva la testa, stordita.
— Guardami, cugina mia! Dicono che sei una ragazza savia. E allora, senti, non attaccare fuoco alla stoppia, rinunciando. Lascia le cose come sono; se no la parentela farà andare in tasca ad avvocati e a giudici tutti i beni di Bakis Zanche.
— Uh, Predu Zanche, la giustizia ti fugga! — gridò un parente, facendo le fiche; mentre una donna anziana, proprietaria di terre, si alzava stringendosi sul viso i lembi della gonna, e diceva con solennità:
— Vittoria Zara, non credere che siamo venuti qui come i corvi: siamo venuti qui perchè ci ha chiamato la legge; e un boccone di più, un boccone di meno fa lo stesso, per noi. Ma è bene che il patrimonio di Bakis Zanche non vada diviso come una focaccia. Alla tua buona coscienza fare il resto.
Anche il notaio s’alzò e disse:
— Vittoria Zara, non è meglio che tu obbedisca ai voleri del defunto?
Allora ella tornò a sedersi, col viso reclinato sul petto, in mezzo alle donne che si chinavano su lei e alcune piangevano per convincerla meglio. E Prededdu Zanche, fermo dietro la sedia, le palpava le spalle, tanto ch’ella fece un movimento brusco per respingerlo.
— Ebbene, sia! — mormorò come fra sè: e diede un grande sospiro.
*
Ad uno ad uno i parenti se ne andarono; in ultimo anche la madre si congedò come un’estranea, ricordando a Vittoria alcune massime del padre morto.
— Egli diceva: la ricchezza è una penitenza. Ma diceva anche, ricòrdatelo, Vittoria; diceva: sa domo ’e su Re sa misura la rè1.
Ignazia, che durante quel tempo non aveva mai aperto bocca, passiva e paziente come una schiava, rimise a posto le panche e le sedie, chiuse le finestre, e infine disse a zia Sirena:
— Io mi cercherò un nuovo padrone: non offendetevi.
Ma la vecchia serva pensava a consolare Vittoria che diceva piangendo come una bambina abbandonata:
— Perchè ha fatto questo? Perchè ha fatto questo? Che peso mi ha lasciato!
— E i buoni cristiani a che servono se non per aiutarti? — disse il servo che somigliava a San Matteo, mentre Pancraziu scherzava chinandosi davanti alla nuova padrona con una bisaccia in mano.
— Su, versa qui dentro il carico, se ti pesa troppo. Me lo porto io.
— Che peso, che peso! — ella ripeteva, curvando le spalle, oppressa; e tutti intorno, sebbene cercassero di distrarla, sentivano una impressione di vuoto, un senso di imbarazzo, come se i padroni invece che morti se ne fossero andati dopo una questione fra loro ed errassero lontani pel mondo.
Prima di andare a coricarsi, Vittoria uscì nel cortile, sedette sulla panchina del tradimento e si mise a pregare; e tosto si accorse che Ignazia spiava da una finestruola. Perchè? La spiegazione gliela diede la gobbina, rimasta nello stazzo a farle compagnia.
— Mikali gira sempre qui intorno come un’anima in pena — le disse all’orecchio, sedendosi accanto a lei.
Ella però la spinse col gomito, costringendola ad alzarsi e a ritirarsi.
— Andate via, o vado via io.
Rimasta sola, immobile, al posto ove Marianna Zanche aveva tradito il marito, appoggiò le spalle al muro e continuò a pregare, ma le pareva che tutta la casa le premesse sulle spalle e la mano vuota e umida di Bakis Zanche fosse ancora fra le sue e la tirasse giù, giù, sotterra.
Note
- ↑ La casa del re — la misura la regge.