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A misura che il notaio leggeva, tutta l’attenzione di lei era attratta dalle parole del testamento: le pareva che lo stesso spirito di Bakis Zanche parlasse attraverso il foglio scritto, e una pena, un terrore, un senso di peso grave la piegavano.

Sì, le voci che correvano nello stazzo erano vere: Bakis Zanche la nominava sua erede. Le imponeva di tenere la serva Sirena per tutta la vita nello stazzo, continuando a compensarle il suo servizio in ragione di lire sette al mese, di regalarle due agnelli a Pasqua e due porcellini a Natale; di tenere i servi attuali finchè servivano fedelmente; di ammazzare una giovenca e distribuirne la carne ai poveri; di far celebrare tutti gli anni la festa di Sant’Isidoro, il dieci maggio, con messa cantata, processione, corse di cavalli e puledri; di pagare i canoni e i legati gravanti sulle sue terre; di collocare due lapidi, una per lui una per Andrea, nel camposanto del paese.

Alla moglie, da cui era, come aveva avvertito il notaio, separato legalmente, lasciava tuttavia l’usufrutto d’un terreno attiguo allo stazzo Zoncheddu.

Di Mikali non faceva parola.

Quando il notaio ebbe finito, Vittoria sollevò gli occhi grandi spauriti, li volse intorno, li riabbassò e balzò in piedi tremante.

— Vorrei dire una parola...

Nessuno rispose; allora ella disse:

— Mikali Zanche ha diritto più di me...

— No, — replicò freddo il notaio — egli non