Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Opunte, Corinto, Rodi/Ode Olimpia XIII
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ODE OLIMPIA XIII
Questo epinicio fu composto nel 466 a. C. — Senofonte aveva riportato due vittorie nella medesima gara, e Pindaro dice che simile onore non era toccato mai a nessuno. Quaranta anni prima il padre di Senofonte aveva pure vinto in Olimpia: donde il principio dell’ode.
Il poeta incomincia con le lodi di Corinto, dove regnano Ordine, Giustizia, Pace, e non attecchiscono né Tracotanza né Odio (1-10).
E seguita con le lodi dei Corinti, dei discendenti di Alete, che condusse primamente gli Eraclidi in quella città. Essi conseguirono questa gloria negli agoni: sono chiari per molte invenzioni, il ditirambo, il morso dei cavalli, il frontone (che in greco si diceva aquila) dei tempî: non son privi di successi poetici né guerreschi (11-24).
Preghiera a Giove che protegga i Corinzi e Senofonte: enumerazione delle vittorie sue, del padre Tessalo e d’altri suoi parenti (25-49).
Oltre ad essi, Pindaro canterà altri eroi corinzi: Sisifo, Medea, e i due che presero parte alla guerra di Troia: Glauco a favor dei Troiani, Euchenore degli Achei; e da Glauco passa a ricordare l’avolo suo (Pindaro dice padre) Perseo, che domò Bellerofonte: e qui è pittorescamente narrato il mito (50-97).
Ma Pindaro con questa narrazione, ha lanciate le frecce troppo oltre la mèta — è uscito troppo dall’argomento. Ora ci torna, ed enumera altre vittorie della famiglia di Senofonte.
L’ode si chiude con la esortazione a uscire dal pelago alla riva — a finire il canto.
Il verso 13 ricorda il pariniano: No, sí bei don del cielo, no non celar garzone: Parini conosceva il suo Pindaro. Di sapore foscoliano è invece la conclusione dei mito (96): in Olimpo accolgono la fiera gli aviti presepî di Giove.
Senofonte aveva fatto voto ad Afrodite di consacrarle, qualora vincesse in Olimpia, cinquanta etère. Per la offerta e la dedica di queste etère Pindaro compose un «encomio» (o «scolio») di cui rimangono vaghissimi frammenti (« Encomî, III).
A SENOFONTE DI CORINTO
VINCITORE NELLO STADIO E NEL PENTATLO IN OLIMPIA
I
Strofe
Celebrando la casa che vinse
tre volte in Olimpia, benevola ai suoi,
e amica degli ospiti, io visito
Corinto felice, vestibolo,
del Sire marino dell’Istmo, di giovani lieto.
Quivi abita, insieme con Ordine, Giustizia sua suora, per cui
in pie’ le città restan salde, e Pace, datrice di beni,
figlie auree di Tètide dal savio consiglio.
Antistrofe
Tracotanza, ch’è madre superba
dell’Odio, sanno esse respinger lontano.
Prodezze ho da dirti; e baldanza
secura sospinge mia lingua.
È vano conato celare l’innato costume:
figliuoli d’Alete, a voi spesso concessero l’Ore fiorite
fulgore d’eroi, vincitori son somma virtú, negli agoni,
e infusero spesso nel cuor dei nepoti
Epodo
l’ingegno degli avoli. — Ogni opera
a chi la rinvenne appartiene.
Di dove le grazie comparvero del ditirambo
mugliante, ch’è sacro a Dïòniso?
Agl’ippici freni chi diede la norma?
Sovr’esso il fastigio dei templi chi l’aquila indusse?
La Musa fiorisce pur essa
per voi: tra le pugne ferali fiorisce anche Marte.
II
Strofe
Tu, Signore, che Olimpia proteggi,
favor sempiterno concedi ai miei detti.
Fa’ tu che sia salva Corinto,
che un Dio Senofonte beato
conduca con prospero vento: gradisci da lui
i serti, l’encomio ed il rito ch’ei reca dai campi di Pisa,
vincendo nel pèntatlo, e insieme nel correr lo stadio. Nessuno
avea dei terrigeni mai tanto ottenuto.
Antistrofe
E due serti lo cinsero d’apio,
quand’egli comparve nei giuochi dell’Istmo:
Nemea non contrasta: sui gorghi
d’Alfeo, vedi estrutta la gloria
di Tessalo, il padre, che vinse nel corso; ed a Pito
gli diede un sol dí nello stadio l’onore del duplice corso;
e ancora quel mese, in Atene rupestre, gli die’ tre compensi
il giorno che premia le gare dei piedi,
Epodo
e sette in Ellotia; e nei riti
marini del sire del pelago,
i canti favellano a lungo del padre Tïòdoro,
di Tersia, d’Erítimo; e in Delfi,
che gloria, e nei paschi Nemei del leone,
fu vostra! Con troppi m’azzuffo, se debbo esaltare
la copia di vostre vittorie:
ché mai non saprei numerare le arene del pelago.
III
Strofe
A ogni cosa conviene misura;
ed è provvederla saggezza opportuna. Ora s’io,
spedito su pubblica nave
dirò dei vostri avoli il senno,
l’eroica prodezza, non mento, esaltando
Corinto nei cantici, e Sisifo, che al pari d’un Nume fu scaltro,
e quella ch’elesse le nozze contrarie ai voleri del padre,
Medea, che salvezza die’ ad Argo e a Giasone.
Antistrofe
Anche innanzi alle mura di Dàrdano,
apparver pugnando da entrambe le parti i Corinzî,
per mettere fine alla guerra,
alcuni coi figli d’Atrèo,
per Elena togliere, ed altri a difesa di Troia.
Tremarono i Danai per Glauco, venuto di Licia al soccorso.
Diceva ei che impero, che grandi sostanze e regale dimora
avea di Pirene fra i muri suo padre,
Epodo
che al giogo costringere Pègaso
volendo, figliuol della Górgone
chiomata di vipere, molto sovresse le fonti
soffrí, pria che Pallade il morso
tutto aureo gli desse. Dal sonno, repente
il vero gli apparve: «Tu dormi, signor degli Eolî?
A te questo magico freno:
tu mostralo al Sire del pelago, tu sgozzagli un tauro».
IV
Strofe
La fanciulla dall’egida fosca
cosí fra le tenebre notturne gli disse,
mentr’egli dormiva. Di súbito
in piedi balzò; quel prodigio
pigliò; Polivíde cercò, di sua patria indovino,
e tutto l’evento gli disse: com’egli, obbedendo ai suoi detti,
la notte a giacer s’era posto vicino all’altar della Diva,
e come la figlia del Sir della folgore
Antistrofe
gli avea dato quell’aureo morso.
Gl’impose che súbito al sogno ubbidisse;
e quando al possente Signore
avesse immolata la fiera
pie’ saldo, un altare fondasse per Pàllade equestre.
La possa dei Superi compie gli eventi oltre il giuro e la speme.
E Bellerofonte gagliardo, lanciatosi, cinse all’alato
corsier le mascelle col magico freno,
Epodo
domato lo tenne, gli ascese
in groppa, e, coperto di bronzo,
a danza guerresca lo spinse. Con quello, dai gorghi
deserti dell’aere di gelo,
colpí delle Amàzzoni le arciere falangi,
e spense Chimera che fuoco spirava, ed i Sòlimi.
La fine sua taccio. In Olimpo
accolgon la fiera gli aviti presepî di Giove.
V
Strofe
Or, s’io scaglio la furia veloce
dei dardi, non giusto mi sembra che troppi
di là dalla mèta ne avventi:
ch’io venni a servire le Muse
e i figli d’Olígete all’Istmo e a Nemea. Molte cose
ben chiare, con poche parole dirò: testimonio giurato
a me cento volte in entrambe le gare sarà dell’araldo
onesto la voce che suona soave.
Antistrofe
Le vittorie d’Olimpia già prima
cantai, non m’inganno. Dirò le venture
assai di buon grado: ora ho speme,
ma l’esito è in Dio. Pur mi sembra,
se il Dèmone patrio li assista, che a Eníalo e a Giove
vorran confidare tale esito. Ma quante sottesso il Parnaso
e in Argo ed in Tebe compieano bell’opere, dirà, ché le seppe,
l’altare che domina i gioghi Licèi;
Epodo
Pellène, Sicione e Megara,
e il bosco ch’è siepe agli Eàcidi
secura; il diran Maratona la pingue, e le belle
le ricche città sotto l’Etna
sublime, e l’Eubèa. Se poi tutta l’Ellade
tu cerchi, a scoprir tutto quanto non basta lo sguardo.
Su’, piedi leggeri, alla riva!
O Giove, e modestia tu accordaci, tu lieta ventura.