Le Fenicie (Euripide - Romagnoli)/Introduzione
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Indice dell'opera: volumi I / VI
Uno dei caratteri piú salienti de Le Fenicie, e che primo colpisce qualsiasi lettore, è la straordinaria ricchezza della materia.
Sfogliamo, rapidissimamente, la tragedia. C’è il prologo di Giocasta. Poi, la descrizione, che il pedagogo fa ad Antigone, dei sette duci assedianti. Ecco l’ingresso delle donne Fenicie che formano il coro: ed ecco l’arrivo e il soliloquio di Polinice, il duetto con la madre Giocasta, il terzetto con lei ed il fratello Etèocle. — Consiglio di guerra fra Etèocle e Creonte.
Un largo canto corale. E dopo, sopraggiunge Tiresia, e sostiene la necessità del sacrificio di Menecèo: episodio inatteso, che allarga improvvisamente l’orizzonte della tragedia, e sembra avviarla a nuove mète. Scena fra Creonte e Menecèo, poi fra Menecèo e le donne Fenicie, alle quali il giovine confida la sua ferma decisione di sacrificio.
Nuovo canto del coro, e poi compare l’araldo. Sicché tutti disponiamo l’anima alla catastrofe, tutti aspettiamo che il poeta stringa le fila, già numerose, del dramma.
E invece, qui comincia a svolgerle piú copiose. Sdoppia, per cominciare, l’esito della pugna. Il nemico è stato respinto dalle mura, ma non ancora interamente debellato; e i due fratelli hanno deciso di giungere alla conclusione attraverso un loro duello. E cosí, avendosi una duplice conclusione, occorrono due araldi e due racconti.
E alla fine del primo, il poeta innesta sul tronco già adulto della tragedia una nuova gemma feconda. Giocasta, avuta notizia dell’imminente duello dei figli, corre al campo, per opporsi all’orribile scempio; e conduce seco la figliuola Antigone.
Né l’azione ancora precipita. Dopo un nuovo canto del coro, appare Creonte, a pianger la perdita del figliuolo. E solo dopo il suo compianto giunge l’araldo, a fare la seconda narrazione. Anzi, a guardar bene, l’interruzione del Coro a questo racconto, lo divide, come un dittico, in due quadri ben distinti, e della medesima entità: 1. Duello tra i fratelli. - 2. Arrivo di Giocasta e d’Antigone, suicidio di Giocasta. Sicché, essenzialmente, in questo dramma le narrazioni dell’araldo sono tre.
E nelle parole dell’araldo vediamo dunque svolgersi, e con evidenza meravigliosa, tutti gli ultimi avvenimenti del mito, sino alla fuga definitiva degli assedianti. Ma non è ancora finita. Euripide non sa rinunciare allo stupendo motivo della pietà d’Antigone. Onde la fanciulla appare, ed esprime, in una lunghissima querimonia, il suo disperato dolore.
E qui pensiamo che la tragedia sia davvero finita. Ma non è cosí. Con un colpo di scena che, almeno alla lettura, risulta di magico effetto, ecco uscire dal suo sepolcro il vecchio Edipo, a cui la fanciulla narra lo sterminio della moglie e dei figli. E il vegliardo rievoca, per suo conto, tutta la propria storia.
Non siamo al termine. Il mito offriva, sebbene in tutt’altro punto del suo svolgimento, un altro motivo: il bando inflitto da Creonte a Edipo. Euripide non sa rinunciarvi; e Creonte arriva a lanciar questo bando, insieme con l’ordine di lasciare insepolto il corpo di Polinice.
E qui balenava un altro motivo di prim’ordine, che aveva ispirato a Sofocle un capolavoro: il contrasto fra il re e la fanciulla. Euripide accoglie anche questo, compreso il particolare delle mancate nozze con Emòne. E Antigone risolve di partire col vecchio padre.
Ma non per questo rinuncia a seppellire il fratello.
Dovessi, o padre, anche morir nell’opra
debito è che di terra io lo ricopra.
E qui, poiché Edipo deve, per ingiunzione di Creonte, partire immediatamente, fra i due disegni d’Antigone, accompagnare il padre, e seppellire il fratello, emerge vera e propria incompatibilità. Ma che cosa importa? Quanti motivi suggerisce il mito, quanti ne hanno creati i suoi grandi predecessori, quanti ne balenano nuovi alla sua fantasia, tanti il poeta ne accoglie nella sua opera. E quelli che non possono arrivare alla compiuta espressione scenica, li espone per via di narrazioni, di allusioni, di corali digressioni liriche. In un certo senso, Le Fenicie sono un corpus del fiero mito dei Labdàcidi.
Cosí, piú che ricchezza, c’è pletora. E s’intende che piú d’un critico abbia sentito il dovere professionale di vibrarvi un colpo di lancetta, per alleggerirne la pressione.
⁂
Ma in qual punto vibrarlo? Qui comincia la discordia.
Ossia: d’una cosa convengono tutti: della superfluità dell’episodio di Menecèo. «Non abbiam tempo — dice il Weil — d’ammirare la nobile risoluzione del figlio di Creonte; e quasi ci adiriamo con lui, come con un seccatore, che giunga a distogliere la nostra attenzione, mentre siamo occupati d’un altro soggetto»1. Queste parole rispecchiano proprio un sentimento comune.
Ma un passo più oltre, incomincia la discordia. Lo scoliaste, per esempio, condanna l’apparizione finale d’Edipo; e con lui va d’accordo, fra altri, il La Harpe. Ma il Patin osserva, e, mi sembra, a ragione, che questa scena, coronando il dramma con effetto cosí patetico, lo riassume e lo esplica. E c’è a chi non piace il prologo. Ed altri vorrebbe espungere il finale. E Schlegel giudica affatto superflua la scena tra i due fratelli, che per Weil (pag. 167) è la piú peregrina di tutta la tragedia. Navighiamo, è chiaro, nel gran mare del soggettivismo.
Se non che, in questi biasimi rivolti contro mète cosí diverse, è implicita una censura unica, e assai grave. «Non è facile dire — deplora il Patin (p. 300: riassumo) — quale sia il soggetto de Le Fenicie. Da un lato, la rivalità d’Etèocle e Polinice, dall’altro i preparativi della difesa, e il sacrificio di Menecèo, sono come due tragedie parallele, che ora si fondono, ora si separano, e giungono insieme ad uno scioglimento complesso, dove si concludono insieme nella gioia e nella tristezza, fra i canti di vittoria di Tebe liberata e i funerali dei re.
E il Weil, gittando un po’ d’acqua sulle esaltazioni, forse veramente un po’ troppo roventi, del Bemardakis, greco editore de Le Fenicie: «Queste considerazioni — afferma — sebbene non prive di giustezza, non ci impediranno di pensare, con Aristotele ed Orazio, che senza unità non esiste opera d’arte perfetta» (op. citata, p. 166).
E sta bene. E cosí, in linea generale, siamo d’accordo. Ma che cosa poi si deve intendere per unità? O, meglio, qual concetto dell’unità si formano il Weil, e, in genere, i crítici dell’antico teatro greco? Non tanto, come io credo, e come si rileva da continuate osservazioni del Patin, quello che si può e si deve legittimamente ricavare dagli scritti d’Aristotele e d’Orazio, quanto quello che ispirò e guidò i moderni tragediografi classicizzanti, massime francesi, e i critici, anche famosi, che derivarono le loro teorie piú da questi che non dagli antichi modelli greci. Vediamolo, questo concetto, definito e messo in opera da uno dei suddetti critici, istoriografo, a suo tempo celeberrimo, né ancora dimenticato, della letteratura mondiale: da Giovanni Andres: «Un buon poeta — dice l’Andres, mescolando, a proposito di Goldoni, qualche giusta osservazione con una quantità di censure che oggi ci sembrano amene — non può frammischiare una parola che direttamente non tenda all’inviluppo e allo scioglimento del nodo che tiene occupato l’animo degli spettatori; ha sempre ad accrescere l’interesse, sempre avanzare nella marcia; e un passo che non serva per farsi avanti, dèe considerarlo come una storta e riprensibile deviazione»2.
Non si scherza, signori: mai Dracone non comminò pene piú severe; ed esaminati a simile traguardo, tutti, ad uno ad uno, i drammi dei Greci, risulterebbero monchi, sbiechi, sbilenchi.
Se non che, l’unità intesa in questo modo, è cosa astratta e matematica, e piú delle scienze che non delle arti. Unità ci dev’essere; ma non di tal genere; accessibile, del resto, a chicchessia, anche, anzi, specialmente quando non possegga veruna qualità intuitiva. L’unità deve rampollare, non da regole prefisse, bensí da un profondo istinto dell’artista.
Quando un artista ha scelto il suo soggetto, nel suo spirito, dove se ne svolge l’elaborazione, accorrono da ogni parte, per arcana attrazione, elementi d’ogni specie. Le determinanti di tale attrazione non sono solamente logiche, anzi sono piuttosto d’altro ordine, sentimentali, passionali, fantastiche, plastiche, musicali. E per una intima virtú, simile a quella del germe, che fra gli innumerevoli umori della terra sceglie ed assorbe soltanto quelli che giovano all’accrescimento omogeneo della pianta, si compongono in complessi che serbano essenziale rigorosa unità, sotto l’apparenza della varietà piú iridescente. In qualche caso, si potrebbe perfino pensare al caleidoscopio, dove un certo ordine di lenti dispone con unità armoniosissima centinaia di frustuli diversissimi, accozzati a caso, nei piú disparati complessi.
Fra parentesi, non si deve credere che una simile concezione dell’arte implichi la irresponsabilità dell’artista e l’abdicazione della critica. Il caleidoscopio potrebbe esser guasto, il germe viziato; e ufficio della critica sarà appunto scoprire e additare il vizio ed il guasto.
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Ora, se esaminiamo Le Fenicie al lume di questi concetti, le imputazioni del Weil, del Patin, della maggior parte dei critici, cadono interamente. Qui non c’è un letterato da tavolino che compone secondo regole di trattati; c’è un artista che crea seguendo liberamente il proprio intuito, in un tempo, in cui, d’altronde, non esisteva ancora la legislazione aristotelica.
E abbiamo già visto, e vedremo in séguito, come il pensiero, l’assillo principale di Euripide era quello di rinnovarsi, di trovare una nuova soluzione d’un problema fondamentale unico. Nella Medea, aveva cercata la riduzione degli elementi, e la loro concentrazione intorno ad una sola figura, che raccogliesse tutta la luce: qui concepisce un quadro in cui entrino tutte le figure del soggetto, e tutte siano inondate dalla piena luce. Concezione, in poesia, non illegittima.
E poi, d’episodio in episodio, dal principio alla fine, c’è un tèma, che coi suoi ritorni costituisce la spina dorsale del dramma. Ed è il dolore di Giocasta. Questa è la vera, la grande intuizione d’Euripide, e non già, come opina la maggioranza dei critici, il colloquio tra i due fratelli.
E per intenderne la genialità profonda, bisogna tornare un istante col pensiero al diverso trattamento del mito nei tre sommi tragediografi.
Ne I Sette a Tebe, la lotta fratricida si compie sola, nella sua necessità fatale: presso ai due fratelli non è alcuna persona cara, e appena un’apostrofe della Corifea cerca, invano, di distogliere Etèocle.
Nell’Edipo a Colono, sulla via di Polinice che muove contro la patria, si trovano l’imprecante Edipo e la supplice Antigone.
Euripide resuscita addirittura Giocasta, che il mito diceva morta súbito dopo la rivelazione fatale. Ardimento che anche oggi, a noi, sembra eccessivo. Ma cosí, di fronte al piú orrido scempio, il poeta pone la sensibilità piú esacerbata. E chi pensa piú al Fato, dinanzi agli sforzi disperati, allo spasimo disumano, alla fiera morte della madre dolorosa?
E questo è il motivo dominante, questo il centro intorno a cui gravitano gli altri elementi del dramma. Qui è l’unità d’azione, che i critici vanno angosciosamente cercando nella materiale connessione degli episodî. Il vero titolo di questa tragedia dovrebbe essere: La passione di Giocasta.
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Un dramma di materia cosí ricca, cosí addensata, difficilmente poteva schivare la monotonia. Euripide la schiva, o, tenta, mediante la varietà, palesemente cercata nella scelta e nella disposizione degli episodî.
E fra episodio ed episodio, introduce un altro grande elemento di varietà, coi canti corali. Mi sembra anzi evidente che appunto al desiderio di moltiplicare la varietà sia dovuta la scelta di donne fenicie anziché tebane, come sarebbe stato piú ovvio, per la costituzione del Coro. Tale scelta, che sempre ha tanto affaticata la mente dei critici, offriva l’opportunità di istoriare la tessitura del dramma con una quantità di elementi pittoreschi e brillanti, dai ricchi vestiti multicolori, alla pittura di misteriose contrade remote, ad una moltitudine di ricordi mitici che legavano, fra i primi lucori della storia, la Grecia all’Oriente.
Un tale ufficio del Coro è chiaramente designato sin dal suo primo ingresso. Nel giro di poche strofe, dinanzi agli occhi degli spettatori, sfila una serie d’immagini fulgidissime: il vertice del Parnaso cosperso di neve; il mare che trepida sotto i soffî di Zefiro, e il mormorio delle onde che ascende per l’ètere; i simulacri d’oro, i lavacri di Castalia e i due vertici del Parnaso scintillanti di faci fra le tènebre; e la caverna del Drago, e le aeree spècole dei Numi, e le scaturigini di Dirce, e la valle selvosa di Febo, e le danze intorno all’ara del Nume.
E altrettanta è la ricchezza del secondo canto, dove il mito di Io, rievocato non senza qualche lontana eco eschilea, e quello di Cadmo, del Drago, dei Terrigeni, si abbelliscono di particolari non meno luminosi e pittoreschi: altrettanto quello del terzo, dove è ricordato Edipo esposto sul Citerone, e da Edipo si risale alla Sfinge e alle sue gesta, e di qui alla nascita dei guerrieri seminati con le ossa del Drago, e, ancóra, alle nozze di Cadmo e d’Armonia, e alle mura di Tebe surte per magica virtú della lira d’Anfione: altrettanto quella del quarto, dove, a proposito del sacrificio di Menecèo, si torna, con agile copia di particolari, al mito della Sfinge e di Edipo.
Ed anche da rilevare mi sembra l’insistenza delle immagini dionisiache. Qui, è chiaro, non avevano molto luogo; e la predilezione che per esse mostra il poeta si dové all’opportunità che offrivano di immagini luminose, colorite, magiche.
E ad intensificare questi effetti, concorre la ricchezza dei ritmi, e la loro varietà, che spesso è contrasto: si paragoni, per esempio, il canto centrale (784 sg.), coi suoi dattili gravi e solenni, i suoi periodi ampî e quadrati, con quello che segue alla partenza di Menecèo (1018 sg.), composto quasi interamente di tríbrachi e trochei, di periodi brevi e quasi saltellanti.
Insomma, il poeta prodiga quanto può, nella parte corale, gli effetti di luce di colore di musica. Inebriato, nel rito lirico, egli alza, sull’ignuda statua della tragedia, le mani congiunte, le apre, ne lascia fluire smeraldi, rubini, zaffiri. Troppi, dirà qualcuno. Forse. Ma l’intenzione dell’artista è evidente: moltiplicare la varietà scintillante.
⁂
Un altro punto conviene anche rilevare, per caratterizzare piú compiutamente Le Fenicie: ed è l’abbondanza della parte musicale.
Appena finito il prologo di Giocasta, entrano Antigone ed il pedagogo. Questa scena che appare al luogo della pàrodos — l’entrata del Coro, che segue, è priva di anapesti — ne riveste il carattere. Anzi, non è semplice ingresso; è la ascensione d’una scala, sottolineata dalle prime battute, nelle quali Antigone chiede la mano al pedagogo, perché l’aiuti a salire. E il metro non è giambico, bensí alternato continuamente di trimetri giambici e di battute liriche della fanciulla, assai ricche di tríbrachi, quasi una danza. E vediamo, anche traverso gli schemi ritmici, che la melodia si libra sovente piena, sfogata:
Deh, se potessi, come una nuvola
dal pie’ di vento, volar, con rapida
aerea traccia,
al mio fratello caro, del profugo
misero, dopo sí lungo transito
di tempo, al seno gittar le braccia!
Questo brano, cantato, apparso al principio, sembra imprimere il suo carattere a tutto il lavoro. Anche Giocasta, appena apparsa, prorompe in una monodia lunghissima (301-354). La musica è perduta; ma la fantasia di un iniziato può, senza presunzione, e senza timore di equivoci, ricostruirne la configurazione generica sui ritmi agili e quasi volitanti. È musica fiorita, lontana dall’arcaica austerità, che oramai ha presa la mano alla parola, e si sbizzarrisce fra svolazzi e ghirigori.
E il medesimo va detto per il compianto d’Antigone sul corpo dei fratelli, ricchissimo degli atteggiamenti e delle ripetizioni che davano tanta noia ad Aristofane. Per esempio il verso 1500:
δάκρυσι δάκρυσιν, ὧ δόμος ὧ δόμος,
sembra davvero tolto ad una parodia.
E quando il dramma tocca il suo fine, ecco la sticomitia fra Edipo e Antigone dilagare ancora, in duetto, cantato; e, nel duetto, una cavatina di Antigone (1732-1746). E dopo la cavatina, a conclusione di tanta tragicità, l’ultima parte è in metri agili, in periodetti brevi, ricchi di tríbrachi, quasi una canzonetta, quasi una cabaletta. Gli ultimi due versetti di Edipo sono tutto un profluvio di fittissime notine:
ἴθ´ ἀλλὰ Βρόμιος ἵνα τε ση- |
Dunque, la musica investe quasi tutto il dramma. Rioccupa largamente e restaura le parti corali, che via via s’erano andate impoverendo, e si insinua nelle parti drammatiche, in tanta misura, da sostituire, e proprio nelle scene piú importanti, la nuda recitazione.
Fu buon diritto, o fu intrusione? Diciamo meglio, cooperò questa invasione musicale ai fini legittimi dell’arte drammatica?
Per formulare un giudizio sicuro, occorrerebbe avere le note, e vedere se, e quanto, valevano ad accrescere l’efficacia dell’espressione drammatica. Ma anche nelle condizioni attuali, sembra di poter concludere che non manchi qualsiasi fondamento alla critica di Aristofane. Anche dall’esame delle sole parole e dei ritmi, appare manifesto che certe caratteristiche inerenti alla musica — ripetizione di parole e di sillabe: gorgheggi — e una certa volatilizzazione di concetti e d’immagini, suggerita anch’essa dal connubio con la musica, o, meglio, con un certo tipo di musica, cospirino a stemperare l’essenza del dramma tragico. La tragedia s’avvia a divenir melodramma.
E in pochi altri drammi d’Euripide il processo appare cosí avanzato come ne Le Fenicie.
⁂
Questo, per concludere, volle palesemente Euripide ne Le Fenicie: raccogliere tutti gli episodî che si riferivano al mito di Edipo, e riunirli a gravitare intorno ad un centro sentimentale — la passione di Giocasta — violando ogni ragion di tempo, di luogo, di tradizione. E tutto quello che non si poteva realizzare su la scena, lo evocò in racconti, in digressioni, in accenni lirici, sia degli attori, sia del coro.
E l’orrore del mito è messo in piena luce, insistendo, esagerando, precisando, dove i predecessori avevano taciuto, velato, abbozzato. Etèocle e Polinice sono messi a contrasto perché venga dispiegato innanzi a tutti l’odioso cinismo del primo; e lo scempio reciproco e le piaghe che i due fratelli s’infliggono sono descritte con evidenza che empie i cuori di raccapriccio. E come non bastasse l’orrore insito nel soggetto, il poeta aggiunge di proprio il superfluo sacrificio di Menecèo. Né mai un solo raggio di serenità arriva a frangere la tetra compagine della parte drammatica.
Ma su questo onore la musica distende quasi di continuo la sua blanda carezza, la sua armoniosa catarsi. E tra la fosca massa degli episodi drammatici, muove, a contrasto, tutta la parte corale, cosí ricca di varietà intima e formale, e tutta riscintillante d’immagini, e sonora di belle e ardite modulazioni.
È come un rapido rivolo alpestre, che insinui fra un’irta aspra giogaia di rupi ferrugigne il fluido limpido nastro delle sue acque, dove si rispecchiano gl’innumerabili giochi versicolori dell’ètere infinito.