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LE FENICIE | 211 |
Dunque, la musica investe quasi tutto il dramma. Rioccupa largamente e restaura le parti corali, che via via s’erano andate impoverendo, e si insinua nelle parti drammatiche, in tanta misura, da sostituire, e proprio nelle scene piú importanti, la nuda recitazione.
Fu buon diritto, o fu intrusione? Diciamo meglio, cooperò questa invasione musicale ai fini legittimi dell’arte drammatica?
Per formulare un giudizio sicuro, occorrerebbe avere le note, e vedere se, e quanto, valevano ad accrescere l’efficacia dell’espressione drammatica. Ma anche nelle condizioni attuali, sembra di poter concludere che non manchi qualsiasi fondamento alla critica di Aristofane. Anche dall’esame delle sole parole e dei ritmi, appare manifesto che certe caratteristiche inerenti alla musica — ripetizione di parole e di sillabe: gorgheggi — e una certa volatilizzazione di concetti e d’immagini, suggerita anch’essa dal connubio con la musica, o, meglio, con un certo tipo di musica, cospirino a stemperare l’essenza del dramma tragico. La tragedia s’avvia a divenir melodramma.
E in pochi altri drammi d’Euripide il processo appare cosí avanzato come ne Le Fenicie.
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Questo, per concludere, volle palesemente Euripide ne Le Fenicie: raccogliere tutti gli episodî che si riferivano al mito di Edipo, e riunirli a gravitare intorno ad un centro sentimentale — la passione di Giocasta — violando ogni ragion di tempo, di luogo, di tradizione. E tutto quello che non si poteva realizzare su la scena, lo evocò in racconti, in digressioni, in accenni lirici, sia degli attori, sia del coro.
E l’orrore del mito è messo in piena luce, insistendo, esagerando, precisando, dove i predecessori avevano taciuto, ve-