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di tale attrazione non sono solamente logiche, anzi sono piuttosto d’altro ordine, sentimentali, passionali, fantastiche, plastiche, musicali. E per una intima virtú, simile a quella del germe, che fra gli innumerevoli umori della terra sceglie ed assorbe soltanto quelli che giovano all’accrescimento omogeneo della pianta, si compongono in complessi che serbano essenziale rigorosa unità, sotto l’apparenza della varietà piú iridescente. In qualche caso, si potrebbe perfino pensare al caleidoscopio, dove un certo ordine di lenti dispone con unità armoniosissima centinaia di frustuli diversissimi, accozzati a caso, nei piú disparati complessi.

Fra parentesi, non si deve credere che una simile concezione dell’arte implichi la irresponsabilità dell’artista e l’abdicazione della critica. Il caleidoscopio potrebbe esser guasto, il germe viziato; e ufficio della critica sarà appunto scoprire e additare il vizio ed il guasto.

Ora, se esaminiamo Le Fenicie al lume di questi concetti, le imputazioni del Weil, del Patin, della maggior parte dei critici, cadono interamente. Qui non c’è un letterato da tavolino che compone secondo regole di trattati; c’è un artista che crea seguendo liberamente il proprio intuito, in un tempo, in cui, d’altronde, non esisteva ancora la legislazione aristotelica.

E abbiamo già visto, e vedremo in séguito, come il pensiero, l’assillo principale di Euripide era quello di rinnovarsi, di trovare una nuova soluzione d’un problema fondamentale unico. Nella Medea, aveva cercata la riduzione degli elementi, e la loro concentrazione intorno ad una sola figura, che raccogliesse tutta la luce: qui concepisce un quadro in cui entrino tutte le figure del soggetto, e tutte siano inondate dalla piena luce. Concezione, in poesia, non illegittima.