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168 un mazzolino di fiori.

maschere a centinaia, eleganti, svariate; un gran moto, un gran chiasso, un corso stupendo. Mia madre, secondo il suo costume, non partecipava affatto all’allegria della festa e non parlava quasi mai. Di tratto in tratto, quando passava la carrozza di qualche amico, essa mi metteva un mazzo di fiori in mano e me lo faceva gettare, tenendomi per la sciarpa perchè nell’atto di lanciarlo io non cadessi a capo fitto. I bambini miei amici mi gettavano anch’essi dei fiori e dei mazzolini e mi salutavano gridando e ridendo del mio bizzarro vestito, ed io rideva del loro, e ci divertivamo del miglior cuore del mondo. Molto più di adesso, tra parentesi, perchè allora una bella mascherina mollemente sdraiata in una vettura, uno stivaletto piccoletto stretto e rotondetto che spenzolasse astutamente fuori d’uno sportello, una calza bianca ben tesa, e una camiciola da débardeur cascante da un lato, non tiravano nè i nostri pensieri, nè i nostri sguardi, nè i nostri desiderii.

— Questo non ci ha che fare.

— Ci divertivamo. A un certo punto però, stanco di gridare e di sbracciarmi, sedetti per ripigliare un po’ di lena. Allo sbocco di via Po in piazza Castello v’era una fila di soldati di cavalleria e di carabinieri, immobili e serii come se assistessero a un funerale. Guardavano ora le carrozze, ora la gente, senza dirsi una parola, senza scambiarsi un sorriso, senza dare un segno di curiosità, nè di diletto, nè di rincrescimento, nè di noia; parevano automi. La folla li stringeva da ogni lato, ondeggiando e rimescolandosi e levando un gran frastuono; dalle finestre delle case vicine, ch’eran tutte piene di signore e di maschere, veniva giù una tempesta di coriandoli, e dalle carrozze una tempesta contro le finestre, e dalla strada contro le carrozze: una battaglia accanita, con grandi nuvoli di farina che velavano a mezzo