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e splendide tradizioni di Careggi rimasero in onore anche a tempo di Lorenzo figlio di Piero. Anzi si può dire che questo terzo periodo fosse ancor più brillante dei precedenti.

Lorenzo aggiungeva alla ricchezza, alla sagacia, all’energia di Cosimo il Vecchio, un’altra dote preziosissima. Una coltura infinita, multiforme, che lo faceva riuscire in ogni sorta di studj, che lo metteva in caso di competere in modo vittorioso coi letterati, i poeti, i filosofi più chiari di que’ tempi.

Poi, negli atti, nei modi, nel vivere, nelle sue relazioni, aveva un che di splendido, di grande che gli procacciò a giusta ragione il titolo di Magnifico. [p. 34 modifica]

Lorenzo, senza parer di esserlo, aveva il fare di un sovrano e Careggi era la sua reggia, era il tempio sacro alle gioje della sua vita di padre, di studioso.

Là si può dire che non giungesse nemmeno l’eco delle lotte cittadine, che non apparisse mai l’immagine dell’ire che in Firenze avevano richiamato in vita i tempi tristissimi delle fazioni.

Il soggiorno di Careggi così bello, così splendido per le naturali bellezze, pareva fatto apposta per sollevare gli animi ed i cuori in un ambiente più sereno e più nobile.

Lorenzo curava laggiù l’istruzione dei suoi sette figli, accoglieva e convitava i suoi compagni dell’accademia platonica, gli artisti de’ quali gli era sì cara la compagnia ed offriva splendida ospitalità ai forestieri che giungevano per ossequiare il cittadino più potente di Firenze e l’ingegno più vigoroso de’ suoi tempi.

Poeta nel senso più assoluto della parola, trovò nella quiete di queste campagne le ispirazioni più belle per la sua Selva d’Amore, un portento di semplicità e di grazia, una creazione degna addirittura del secolo d’oro dell’arte e della letteratura.

Là sotto il rezzo delle querci, dinanzi allo spettacolo sublime dei caldi tramonti, tra l’armonia delle cascatelle del torrente, evocò i ricordi della fanciullezza, sognò gli occhi soavi di Lucrezia Donati che gli avevano ferito il cuore giovanile come a Dante quei di Beatrice, rivide le belle castellane de’ secoli passati innamorate de’ paggi formosi, fantasticò coi canti delle ninfe delle fonti, e la mente sua vigorosa trovò in mezzo a tanta poesia della natura, le ispirazioni più vaste e più potenti. [p. 35 modifica]

Non è qui il caso di diffondersi a parlare di Lorenzo il Magnifico, perchè non si tratta di scriver la storia di casa Medici, tanto più che questo periodo più importante d’ogni altro ci condurrebbe troppo lontani dal nostro scopo.

Noi dobbiamo lasciare affatto la storia di questo gran personaggio per non occuparci che delle memorie che si riferiscono al suo soggiorno a Careggi, sembrandoci giusto l’evocare i ricordi più gloriosi dell’edifizio che illustriamo.

Ed a Careggi noi lo ritroviamo in mezzo a quell’eletta schiera di sommi ingegni, di filosofi profondi, di studiosi appassionati che fin da’ tempi di Cosimo aveano trovato qui il campo sereno delle loro benefiche battaglie, il teatro delle loro imprese nobilissime; lo troviamo accanto all’Argiropulo, a Marsilio Ficino, a Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano, Cristoforo Landino, Bernardo Rucellai, Carlo Marzuppini, Bartolommeo Scala, Giovanni Cavalcanti, Piero Del Riccio, Filippo Valori, Donato Acciajoli, Antonio degli Agli, Francesco Bandini, Fra Mariano da Grinazzano, Tommaso Benci ecc.

Careggi ci ricorda poi Lorenzo amico e mecenate dell’arte e ci sembra vederlo in compagnia del Buonarroti, di Francesco Granacci, di Simone del Pollajolo, del Torrigiani e di tanti altri che avevano preso il posto del Brunellesco, di Donatello, di Michelozzo.

Essa ci ricorda ancora le splendide nozze delle figlie di Lorenzo coi Salviati, i Ridolfi, i Cybo, nozze celebrate con tutto quello sfarzo che ad una famiglia di tanta importanza si addiceva. E ci ricorda poi anche una nota triste e penosa: i giorni in cui Lorenzo scampato miracolosamente alla congiura che s’intitolò dalla famiglia Pazzi, venne qua a cercar [p. 36 modifica]pace al dolore della morte del fratello Giuliano che il ferro de’ congiurati aveva spento in S. Maria del Fiore.

La gloria e lo splendore di Lorenzo il Magnifico furono brevi, perchè troncati dalla morte; ma la vita di lui attraversò come una meteora abbagliante di luce quel fortunoso periodo che preparò la caduta della repubblica. Furono pochi lustri di grandezza infinita e di magnificenza portentosa che lasciarono anche nei tempi più lontani le tracce indelebili del loro passaggio.

Come quello di Cosimo, Careggi accolse anche l’estremo sospiro di quell’uomo che fu durante la sua vita oggetto dell’ ammirazione e del rispetto di tutta l’Europa.

Nel febbrajo del 1492 si era ammalato di una strana infermità che i medici d’allora non erano stati buoni non solo a vincere, ma nemmeno a giudicare, tanto che si giunse perfino a supporre, non so con qual fondamento, che il male fosse stato prodotto da un lento, ma potentissimo veleno fattogli somministrare da chi vedeva con invidia tanta potenza. Fatto sta che il male si aggravò sempre più e negli ultimi giorni di marzo si dovette perdere ogni speranza di troncarne il corso funesto.

I parenti e gli amici lo vegliavano con ogni premura e il Pico ed il Poliziano specialmente, pareva non sapessero mai distaccarsi dal letto dell’amico carissimo.

Se le memorie contradittorie che ci sono giunte non ci porgono con sicurezza i particolari degli ultimi momenti di Lorenzo de’ Medici, sembra però che non sia da negarsi la verità della visita che poco prima della catastrofe gli avrebbe fatto Girolamo Savonarola. [p. 37 modifica]

La vita fuggiva rapida dal corpo di Lorenzo: la voce gli s’era fatta fioca e debole, l’occhio errava come in cerca dell’infinito, le mani pallide, stecchite, stringevano quelle degli amici e de’ parenti che muti assistevano alla mestissima scena, quando apparve nella camera la bianca veste del Savonarola.

Austera figura di frate che ad un affetto mirabile, infinito di patria e di libertà accoppiava il fanatismo quasi cieco di religione che lo spingeva a distruggere le sublimi rivelazioni dell’ingegno artistico e del bello, perchè non turbassero la serena severità del culto, il Savonarola veniva da S. Marco a portare al morente la benedizione estrema ed a chiedergli di rivolger l’ultimo pensiero alla libertà della patria.

Strano contrasto quello fra il cittadino più ricco, più potente più sfarzoso, che moriva in mezzo al lusso ed ai tesori dell’arte e il frate umilissimo che usciva dalla nuda cella dalla quale erano perfino bandite le opere uscite dal pennello dell’Angelico! Sotto diverse parvenze, erano due grandi individualità, due splendide figure che si contendevano il primato sulla cittadinanza. L’uno e l’altro attraevano la gente col fascino della parola; ma l’una era piena di poetica dolcezza e l’altra di mistica fierezza: l’uno e l’altro s’imponevano coll’autorità dell’ingegno e del sapere; ma l’uno abbagliava e seduceva collo splendore della ricchezza e del bello terreno, l’altro impauriva ed esaltava collo spettro della vita spirituale.

Ora stavano vicini: l’uno presso ad abbandonare ogni materiale affetto, l’altro pronto a mostrargli la serenità di un avvenire sovrumano.

Afferma taluno che il Savonarola, compiuti gli uffici del suo religioso ministero, chiedesse a Lorenzo come titolo ad un [p. 38 modifica]supremo perdono, di render la libertà a Firenze e che quegli sfuggendo lo sguardo penetrante del frate volgesse sdegnosamente la testa lasciando il Savonarola a raccogliere nel muto linguaggio della morte la risposta che attendeva.

Erano le cinque di sera dell’8 aprile 1492 e lo splendore di una grande esistenza scompariva insieme allo splendore del sole che si celava dietro ai colli di Malmantile.