La vigna sul mare/L'avventore
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L’AVVENTORE
Capitò quella sera, nel locale del signor Giglio, un insolito avventore. Il signor Giglio è il vinaio del nostro quartiere: il locale, aristocraticamente intitolato «bottiglieria», è rifulgente di stucchi, di dorature, di eleganti scaffali; ma la clientela è sempre quella: piccoli borghesi, operai, infermieri, commessi, garzoni di bottega; anche donne, che sorvegliano i mariti ubbriaconi. Così, le due sale, la prima col banco, la seconda più raccolta e tiepida, sono sempre piene, sempre pervase da un’atmosfera di quieta letizia: si gioca, si beve; a qualcuno è permesso anche fare un breve pasto economico: tutto procede con calma, e gli avventori si conoscono l’un con l’altro come tanti parenti; e si vogliono bene. Tutto questo lo si deve all’onestà bonaria del signor Giglio, che dal suo trono di zinco presiede l’assemblea e, a sua volta, con la sua bella testona riccioluta di autentico Bacco saluta gli avventori come tanti suoi fratelli.
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L’avventore nuovo attraversò, dunque, la prima sala e andò a sedersi nella seconda, come se lo usasse fare da molti anni; e si mise proprio nell’angolo accanto all’uscio del retrobottega, davanti a un piccolo tavolo che, appunto perché piccolo, rimaneva quasi sempre disponibile. Una rete di sguardi, da prima quasi sorpresi, poi curiosi, infine forzatamente noncuranti, lo chiuse subito in quell’angolo, come in una gabbia di uccello raro: poiché, in quell’ambiente allegrone e familiare, egli aveva in verità qualche cosa di estraneo, non solo, ma di esotico; col suo soprabito foderato di castoro, la bombetta un po’ a sghimbescio sui capelli radi ma bene aggiustati dal parrucchiere, il lungo viso malaticcio, e infine i guanti di camoscio e il bastone con l’immancabile testa di cane buono e brutto.
Sembrava, per lo meno, l’aristocratico membro decaduto di una famiglia ducale, o un nobile da cinematografo: e quello che sopra tutto sorprendeva, nel suo viso ovale di antico ritratto, era lo sguardo mite dei suoi occhi azzurri, a mandorla, che, per le lunghe ciglia arricciate, ricordavano non so quale fantastico fiore raggiante. Tutti credevano di averlo già veduto, in qualche luogo, le donne in chiesa, gli uomini per strada, ma come in sogno: e nessuno lo disse, perché la presenza di lui, fin dal primo momento, aveva sparso intorno un senso di soggezione, quasi di vaga paura. Sì, paura: perché, se egli non era un nobile autentico o un diplomatico straniero in visita di studio presso le leggendarie osterie romane, era probabilmente un degnissimo commissario di pubblica sicurezza.
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Con ciò non s’intende dire che i pacifici avventori del signor Giglio avessero gran macchie sulla coscienza, se ne togli il vecchio vizio del bere: ma insomma! Il quartiere, in questi ultimi tempi, era stato afflitto da piccoli furti: un misterioso signore vestito, al solito, di grigio aveva dato un cioccolatino a una bambina: e, più impressionante di ogni altra cosa, quasi tutte le sere gridi disperati allarmavano le donne e i bambini. Forse erano gatti, forse qualcuno che si divertiva a imitarli; infine, nella vita non si sa nulla di preciso.
Il solo a non scomporsi fu il bravo signor Giglio: prima di tutto perché aveva la coscienza più lucida del suo banco, e poi per la speranza di un nuovo buon avventore: di quelli che, sotto le apparenze colte e severe, trincano più degli altri: e alla sua salute, quando andò in cantina a prendergli una mezza bottiglia del suo miglior vino, mandò giù di un fiato una mezza bottiglia per conto suo. E quando lo servì non gli rivolse la parola, ma rimase un po’ mortificato che anche l’altro restasse rigido e muto al suo posto, come un fantoccio ben vestito.
Un’altra persona che non si impressionò troppo fu la sopraggiunta signora Mercedes, col suo scialletto a fiori, la trecciolina di lana grigia annodata in cima alla testa tremula, e un piccolo cestino in mano. Con questo cestino ella vendeva, durante la giornata, giunchiglie e altri fiori campestri, e tutti gliene compravano almeno uno, — dai venti ai cinquanta centesimi, — perché s’era sparsa la voce ch’ella portava fortuna.
Ma se la portava agli altri, ella certo non la portava a sé stessa, se si guardavano le sue scarpe da uomo, che, diceva lei, ridevano per le tante piccole bocche delle crepature, e se dal cestino trasse, per cenare, un involtino, e dall’involtino una pietosa testina di abbacchio, arrostita. Ci mancava il meglio, alla povera testina, i cui occhi pareva piangessero ancora per le scottature: ci mancavano le cervella; ma le coppe ossee di queste, la vecchia aveva riempito di mollica di pane bagnato, col sale sopra; e parve darsi l’illusione di un pasto squisito quando cominciò, con le sue piccole mani grigie di mummia, tuttavia odorose di giunchiglia, a staccare la mandibola della testina: se la portò alla bocca sdentata, e la succhiò, poiché non c’era veramente altro da fare; e poi la intinse nella mollica, e ancora la succhiò. E succhia, e mangia mollica, e bevici su un sorsetto avaro da un bicchiere di vinello rosso, servitole dal signor Giglio, ella parve dimenticarsi di tutto e di tutti. Scuoteva però la testa, con gli occhi grandi socchiusi, e con quei cenni significativi certamente ella diceva qualche cosa a sé stessa, qualche cosa di molto importante.
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— Signora Mercedes, — le disse il sor Tasso, suo vicino di tavola, — si ricordi che oggi è la Vigilia e lei ha mangiato di grasso.
Parlava sul serio, il sor Tasso, chiamato così proprio in onore del poeta, perché anche lui era un sentimentalone tragico, sempre vanamente innamorato di fantastiche principesse: chiamato così, dai suoi antichi compagni di scuola. Adesso, di decadenza in decadenza, aveva finito col fare il guardiano di cantieri; ma l’anima la conservava la stessa, fedele a Dio, alla Patria, all’amore per il vino del signor Giglio.
La vecchia fioraia trasalì. E anche questa sembrò una commedia, ma non era.
— Che volete, — disse con la sua voce di capretta, — io non lo ricordavo: ho perduto la memoria; e poi la testina me l’ha data la signora del villino qui accanto; e se me l’ha data lei, che è buona e religiosa, che dà le croste di formaggio ai gatti randagi, e le briciole agli uccellini, e mette al sole i suoi pesciolini rossi perché, dentro il loro vaso azzurro, credano di essere ancora nel Fiume Azzurro della Cina, vuol dire che anche oggi potevo mangiarla.
— Quante chiacchiere per farsi assolvere; dica piuttosto che è una golosa ipocrita — ribatté il sor Pippo, l’altro vicino di tavola, il nero pittore di pareti, che rassomigliava a Nerone, prode come questi nel bastonare la moglie e quanti gli capitavano sotto.
La signora, anzi signorina, Mercedes non replicò: aveva paura: ma il sor Tasso, che già qualche volta aveva sentito il sapore delle botte del sor Pippo, la difese impavidamente. Con la bocca un po’ storta dell’uomo che ha ben bene assaggiato il calice d’acqua di cicoria della vita, disse sottovoce:
— La signora Mercedes avrebbe certamente preferito sorbirsi un maritozzo con la panna, per rispettare la vigilia; e berci sopra un mezzo litro di quello dolce; ma chi glieli dà? Cristo Dio?
E sorrideva, il poeta, con gli occhi verdi di bile, eppur mansueti come quelli dell’agnello la cui testa era stata divorata dalla signora Mercedes. Allora, nella bottiglieria Giglio, accadde un fatto straordinario. Mentre il prepotente sor Pippo cercava entro di sé una risposta, e non trovandola arrotava i denti, l’avventore impellicciato si alzò dal suo tavolino e andò dritto al banco; pagò, poi disse qualche cosa al padrone: infine se ne andò, tranquillo, sollevandosi sulle orecchie il bavero che ancora aveva il tepore del castoro vivo.
Ed ecco il riccioluto signor Giglio avviarsi zoppicando al retrobottega, donde subito dopo uscì con un piattino che pareva d’argento e un calice che pareva d’oro. Il tutto depose davanti alla signora Mercedes, dicendo: — Ve lo offre quel signore con la bombetta.
Ella si sentì come squarciare le cataratte dei suoi occhi quasi centenari. Si alzò, si fece il segno della croce e disse: — Se ero ancora al mio paese avrei detto: quello è certamente il Figlio di Dio.
Tutti capirono il senso di queste parole: e, d’impeto, d’istinto, dal fondo dell’essere, scoppiò e percorse i loro corpacci un brivido d’infinita gioia; le donne rividero, oltre le dune di questa sabbiosa vita, sullo sfondo marino della fanciullezza, la figura del sacerdote che impartiva loro la prima Comunione.
E, sul piattino di latta, quel maritozzo con la bocca colma di panna, e quel calice entro la cui trasparenza l’oro schiumante del vino sembrava volesse sollevarsi in zampillo per svanire prima di esser bevuto, ebbero per tutti un fulmineo, sebbene non distinto, significato di divinità.
Poi cominciarono i commenti, gli scherzi, le risate, e ciascuno rientrò nel suo cerchio di povera ma allegra umanità.