La testa della vipera/IV
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IV.
Figliuolo d’un uomo che doveva dirsi il fiore degli egoisti e di una donna dalla testa leggiera e dalla condotta compagna, egli era nato cogli amori d’un prodigo e le passioni d’un libertino. Suo padre lo trattava come un cane, ed egli odiò suo padre; conobbe presto le sregolatezze della madre, ed egli disprezzò sua madre. Dovette assistere a scene terribili, ignobili, fra genitori, che gli tolsero per essi ogni rispetto e riguardo. Il padre non aveva che un mezzo per tenerlo sommesso e disciplinato: il rigore, e ne abusava. Il giovinetto conobbe tutti i generi di punizione che un padre senza cuore possa infliggere a un figliuolo recalcitrante.
La madre un bel dì scappò di casa con non so quale avventuriero, e la rabbia, la vergogna del marito abbandonato si convertirono in altrettanta maggiore persecuzione verso il figliuolo. Questi pensò ancora egli più volte di sottrarsi colla fuga ad un’esistenza divenuta insopportabile; ma dove andare? e come vivere?
A quattordici anni credette poter procurarsi un mezzo di scampo. Un suo compagno di scuola, più vecchio di lui, gli parlò del giuoco: Lorenzo riuscì a rubare uno scudo dal taschino del panciotto di suo padre, a letto addormentato, e si fece condurre in una bisca. Guadagnò, e il suo guadagno subito consumò in luoghi sconci, per tornare a casa ad ora indebita, senza più un soldo e ubbriaco. Furibonda fu la collera del padre, e degni di essa gli effetti. Lorenzo, schiaffeggiato, cacciato a calci nello stambugio che gli serviva da camera, vi doveva rimanere prigione una settimana a pane ed acqua. Uscì di là più invelenito, e con nel sangue già violente le destatesi passioni del giuoco e della dissolutezza.
In quel tempo entrò in casa come governante una giovane donna, fresca, grassoccia, colla volgare bellezza d’una florida salute, colle grossolane attrattive d’una carnosa robustezza, ed in breve fu la padrona. Era la Marianna.
Lorenzo cominciò per odiarla; ma la donna, o avesse veramente compassione di quel maltrattato, o per accorta previdenza volesse prepararsi la continuazione del dominio in quella casa, anche dopo la morte dell’attuale padrone, si fece la protettrice del giovinetto. Dell’autorità che aveva saputo acquistare sul padre di Lorenzo, si giovò per mitigare i feroci umori verso il figlio; molte punizioni riuscì a diminuirgli o anche a risparmiargli affatto; molte colpe di lui seppe nascondere e nello stesso tempo valse a fornire il borsellino vuoto del giovane perchè potesse a suo modo divertirsi. Fece anche peggio con infame cedevolezza, per tenere a sè legati e padre e figliuolo; e insomma riuscì a dominare l’uno e l’altro e a spadroneggiare in quella casa in tutto e per tutto.
Quando il padre morì, le cose non cambiarono per Marianna; anzi furono meglio ancora. Sul giovane Lorenzo quella furba, corrotta donna, aveva saputo acquistare un influsso anche maggiore.
Violento di carattere, maligno di cuore, Lorenzo, imperioso, sofistico; grossolana la donna, avevano pure non di rado furiose contese; ma appetto a lei più tenace, più verbosa, più acre, che sapeva di lui tutto il brutto, ne conosceva a fondo l’anima ed era abilissima a rinfacciare, accusare, minacciare, egli finiva per cedere e col tempo s’era lasciato investire da una specie di suggezione, che pareva riconoscere nella donna una superiorità.
Inoltre la Marianna, toltasi in mano, fin da quando viveva il padre di Lorenzo non solo il governo della casa, ma tutta l’amministrazione del patrimonio, erasi fatta poco meno che indispensabile al giovane che amava trovarsi ogni cosa accomodata a dovere, e denari in pronto a ogni occasione senza aversi da prendere il menomo fastidio.
Nè era poco abile e poco zelante l’accorta femmina a procurare il proprio guadagno: tanto che, maneggiando essa e capitali e fondi e redditi, ogni anno riusciva a mettere in disparte, come cosa sua, un buon numero di migliaja di lire, e in capo a due lustri aveva investito in titoli del debito pubblico e in depositi bancarî più di cinquantamila lire. Ma mentre venivano così aumentandosi le sostanze della governante, scemavano rapidamente quelle del padrone, da lui sperperate al giuoco, nei bagordi, nel soddisfacimento delle sue passioni e dei suoi vizî. Era sempre la Marianna che provvedeva ai bisogni di lui, accattando denari di qua e di là, e specialmente da sè stessa.
Quando Lorenzo contava già trentacinque anni ed era quasi del tutto rovinato, la fortuna venne a porgergli occasione di rifarsi mercè un matrimonio.
A prender moglie egli non ci aveva mai pensato; e se vi avesse pensato, si sarebbe affrettato a fargliene smettere l’idea la Marianna, la quale a niun patto avrebbe tollerato l’ingresso in casa d’un’altra donna.
Ma ci fu una fanciulla così disgraziata da far nascere in Marianna medesima il disegno di darla in moglie al padrone. Era figliuola unica d’un usurajo ignobile e spilorcio, cui tutti disprezzavano e che tutti disprezzava, vivendo isolato nel sudiciume d’una stamberga. La misera Luisa era venuta su stentata, rinchiusa fra quelle mefitiche mura, senz’aria, senza sole, mal nutrita, mal riparata dal freddo dell’inverno, oppressa dall’afa nei calori della state. Appena se il padre le aveva fatto imparare a leggere e scrivere, mandandola da certe monache, le quali, oltre il rosario e un ricco repertorio di giaculatorie, nulla sapevano insegnare.
Della vita, la poveretta non conobbe mai nulla, del mondo non potè vedere che le quattro pareti della triste casa paterna, un umido cortiletto, e il convento e il tratto di strada che conduceva alla chiesa, e la chiesa dove il padre la traeva, estate e inverno, ad assistere alla prima messa.
In casa, naturalmente, a fare le più umili come le più faticose bisogne, non c’era altra persona che lei.
Marianna cominciò ad aver attinenza coll’usurajo, cercando accatti pel suo padrone.
Al vecchio gufo tornò gradevole la vivace grossolanità di quella paffuta e rubiconda comare; si stabilì a poco a poco fra quei due una certa famigliarità; la governante di Lorenzo fu la sola creatura umana che il padre di Luisa ammettesse in casa per altro che per affari.
Ed ecco che un bel giorno, un tiro secco di colpo rapì l’usurajo alla figliuola e agli accumulati e nascosti tesori, senza che egli, il quale rifuggiva sempre con orrore dal pensiero della morte, avesse, in alcun modo, provvisto alle cose sue.
La figliuola, unica erede, essendo già maggiore di età, entrò subito in possesso delle sostanze paterne, e, inesperta, ignorante di tutto com’era, trovossi più imbarazzata d’un pulcino nella stoppa. Ma c’era lì la Marianna, e la povera fanciulla ringraziò la Provvidenza che le avesse procurato un sì valevole ajuto a trarla d’impiccio.
Quando la governante del Lograve ebbe veduto a quale vistosa ricchezza ammontasse la eredità lasciata dall’usurajo, provò invincibile la tentazione di metterci le mani dentro, e il mezzo più facile e più sicuro per ciò vide subito esser quello di far sposare Luisa da Lorenzo. La fanciulla era una scempietta che non avrebbe mai avuto una volontà sua, che di certo avrebbe subìto dalla Marianna quella tirannìa che fin allora aveva sofferto da suo padre. Luisa poi aveva ancora agli occhî della governante un altro merito: era brutta.
Lorenzo dapprima si rifiutò energicamente a tal disegno, ma l’ostinata donna, tanto più stimolata a spuntarla, finì per vincere, e nulla valse a salvare la povera Luisa dal suo triste destino.
Da principio però ella non ebbe a dolersene: le parve anzi di non essere mai stata così bene: aveva cessato di fare la servaccia e godeva di alcuni agi e vantaggi della ricchezza, cui la spilorcerìa del padre non le aveva lasciato conoscere mai. Suo marito di certo non le inspirava nessun tenero affetto e nemmeno fiducia e stima; e il carattere violento di Lorenzo, che con tanta frequenza diventava bestiale, riuscì a incuterle una tremenda paura. Per un po’ di tempo la Marianna ebbe verso Luisa un’apparenza di protezione e difesa, ma fu proprio breve quel tempo, perchè la serva-padrona ben presto prese in uggia quel mostricciuolo di donna, che, in fin dei conti, altro non erale che un impaccio e una seccatura.
Allora fu una gara fra due anime malvagie a chi più tormentasse quella debole, impotente creatura abbandonata in loro balìa; così bene, che le miserie, i rabbuffi, gli stenti ch’ella aveva dovuto soffrire sotto la tirannìa paterna parvero a Luisa un nonnulla appetto alle sragionate violenze del marito, alle perfide persecuzioni della governante.
Dopo cinque anni di matrimonio, ecco avverarsi un inaspettato avvenimento che rialzò l’animo accasciato della poveretta, le diede una energìa di cui nemmeno essa si sarebbe creduta capace: ella stava per essere madre!
Fu una rivelazione per quella derelitta, cui nessuno aveva ancora amata, che fin allora non aveva amato nessuno mai. La sua facoltà affettiva, inerte, si destò a un tratto e di subito forte e risoluta. In quell’essere ancora ignoto che la Provvidenza le mandava si concentrò per lei la ragione di vivere, tutto il bene possibile sulla terra, una luce divina che rischiarava meravigliose mai più sognate plaghe nell’avvenire. Se essa poteva soffrire rassegnata ogni sopruso, ogni travaglio, non voleva, non doveva permettere che una sorte uguale, accogliesse nel mondo quella creaturina che Dio le affidava; era suo obbligo prepararle più soffice il nido, più mite l’aurora, per così dire, più sereno il cielo. Di qui nuovi e maggiori contrasti col marito e la governante. La notizia della prossima maternità di Luisa era stata accolta da Lorenzo colla sgarbata indifferenza del suo cinico egoismo, da Marianna con nuovo dispetto e un accrescimento di malevolenza. Ogni giorno avevano luogo scene violente, disgustose, vergognose fra quei due tristi e la loro vittima, la quale ora trovava un coraggio non avuto mai per difendere in sè stessa il figliuolo nascituro; ma ognuna di quelle scene portava via, per così dire, parte della vita alla povera donna, già così debole e cagionevole, di modo che quando giunse il momento del parto, l’infelice era affatto stremata di forze. Ella avrebbe voluto allattare il bambino essa stessa, ma il medico la persuase che ciò era impossibile; avrebb’ella voluto che la nutrice stesse in casa, per aver essa sempre seco suo figlio; ma questo la Marianna non voleva tollerare, e il marito lo negò assolutamente. In una cosa sola vinse il desiderio di Luisa; nella scelta del padrino.
Dei congiunti che gli rimanevano, Lorenzo Lograve non aveva conservato relazione con alcuno, fuorchè con un cugino di secondo grado, Emilio Danzàno, ricco industriale, che da qualche tempo aveva rinunciato a fabbricare quei panni che lo avevano arricchito per godersi in pace gli agi onestamente acquistati e le dolcezze della famiglia. Nelle rare visite che si facevano, Luisa ammirò la tenerezza fiduciosa e concorde che aveva luogo fra i conjugi Danzàno e l’amore, l’attenzione di entrambi per un loro figliuoletto che, quand’ella si sentiva madre, contava appena tre anni o poco più. Un simile amore la poveretta sapeva pur troppo che suo figlio non lo avrebbe trovato nel padre, e pensò che quel galantuomo di Danzàno sarebbe stato un difensore, un ajuto al nascituro.
Fu la sola contentezza che Luisa ebbe il vedere accettati per padrino e madrina i conjugi Danzàno.
Ma non fu solamente contentezza, fu trasporto, ebbrezza, delirio di felicità quello che la povera donna provò, quando la levatrice le ebbe posto fra le braccia un fantolino che piagnucolava con appena udibil voce.
Egli era grosso come un ranocchio, magro, schiacciato il viso, nero di carnagione, tutto rughe la pelle; eppure all’estasiata madre parve la bellezza di un angioletto sceso per lei dal paradiso.
Ella aveva sofferto di molto, e dolori morali e tormenti fisici; ma tutti furono obliati, o meglio benedetti, poichè le avevano procurato tanto bene, tanta gioja, tanto rapimento.
Il medico diceva che di molte cure aveva bisogno la puerpera: ma che grazie allo zelo di chi la vegliava avrebbe potuto essere salva anche la vita della madre. Giù da un paese montanino era arrivata una balia tanto fatta che poteva dirsi il ritratto della prosperità; e la giovane madre se n’era tutta rallegrata.
A Lorenzo la nuova paternità non aveva prodotto grande entusiasmo di gioja; egli guardava con occhio fra dispettoso e mortificato quel scimiottino, e lo mortificavano viepiù i sogghigni, le ironìe, i compatimenti della Marianna.
Luisa dapprima era stata un po’ gelosa della balia, ma poi, visto che essa dimostrava molto affetto al bambino, e che questi suggeva con così avida soddisfazione l’alimento da quel turgido seno, le aveva posto subito un gran bene, e avrebbe fatto non so che cosa per contentarla. La balia mostrò un gran desiderio di avere un orologio, e Luisa, staccato dal capoletto il suo, glie lo diede.
A sera, Lorenzo rincasando irritatissimo per una vistosa perdita al giuoco, eccitato dai fumi del vino e dei liquori, passò nella camera della moglie, e il suo occhio grifagno vide che l’orologio mancava dal suo solito posto. Ne chiese, e udito del regalo fattone alla balia, scoppiò senz’altro in una di quelle sue tremende collere che già agghiacciavano di terrore la poveretta quando era in salute.
L’ammalata fu assalita da una violenta febbre, e quella sera medesima il medico la giudicò in pericolo.
Due giorni dopo essa era morta.