Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Mariano e Moschino.

Mariano. Dove ten vai, Moschino?

Moschino.   Vado a girare un’ora.
Le solite ambasciate a far per la signora.
Senti, se non è pazza. Mi manda ad invitare
Il Conte, il Cavaliere e il Duca a desinare,
E tutti tre son stati da lei questa mattina.
Non glielo potea dire? Guarda che testolina!
Mariano. Certo che la padrona ha un bel temperamento.
Si sente delle voglie venire ogni momento.
Trova sempre qualcosa da dir, da comandare.
Moschino. Credo lo faccia apposta per farmi sgambettare.
Quando siamo alla sera, son rifinito e stracco.

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Mariano. Anch’io, per dir il vero... Moschin, prendi tabacco?

(offerendogli tabacco colla scatola d’argento ch’ebbe da donna Barbara.)
Moschino. Qualche poco. Mariano, lasciami un po’ vedere.
Io non ne ho più veduto di queste tabacchiere.
È d’argento?
Mariano.   D’argento. Ti piace?
Moschino.   È bella molto.
Valerà per lo meno tre zecchini.
Mariano.   Sei stolto?
Ne valerà ben sei.
Moschino.   Davver? chi te l’ha data?
Mariano. Vorresti saper troppo. Mi è stata regalata.
Moschino. Da chi?
Mariano.   Non posso dirlo.
Moschino.   Sarebbe bella, affè.
Io teco mi confido, tu ti confidi in me.
Ci abbiamo confidato qualcosa di più grosso.
Marian, tu mi fai torto.
Mariano.   Questa volta non posso.
Moschino. Mi faresti pensare a qualche baronata.
Mariano. Che vuol dir?
Moschino.   Che so io, che l’avessi rubata.
Mariano. Moschin, ti compatisco, perchè siam buoni amici.
Non ardirebbe un altro di dir quel che tu dici.
Sai ch’io son galantuomo.
Moschino.   Hai ragion, mi disdico;
Ma se non ti confidi, non mi sei buon amico.
Mariano. Se dirtelo potessi, avrei tutto il contento;
Ma non posso.
Moschino.   Perchè?
Mariano.   Perchè vi è il giuramento.
Moschino. Questa è bella davvero! Hai di tacer giurato
Il nome ed il cognome di chi ti ha regalato?
Mariano. Io non giurai tacere del donatore il nome,

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Ma la cagion del dono, le circostanze e il come.

Moschino. Celami la cagione per cui ti fu donata.
Ma confidami almeno la man che te l’ha data.
Mariano. Che ci pensi un pochino: non so ben, se in rigore
Sia obbligato anche il nome celar del donatore.
Sai ch’io son delicato.
Moschino.   Ed io, se non lo sveli,
Penso che qualche inganno nel tuo mister si celi.
Mariano. Ma mi faresti dire delle bestialità.
Sono un uomo d’onore, e tutto il mondo il sa.
E il dato giuramento serbando fedelmente,
Quello che posso dire, dirò liberamente.
Ho avuto questa scatola, perchè in un matrimonio
Fatto segretamente servii di testimonio.
Moschino. Ora ti compatisco. Queste son quelle cose,
Che anche ai più cari amici deonsi tenere ascose.
Ho piacer della scatola. E il tabacco? È stupendo.
Ne piglio un’altra presa, e poscia te la rendo,
(prende tabacco osservando bene la scatola)
Oh cospetto di bacco! Marian, non ti stupire,
Se tutto il gran segreto son venuto a scoprire.
La scatola conosco, ho capito ogni cosa.
Dunque la padroncina segretamente è sposa?
Mariano. Come! non so niente; e prima di parlare,
Pria di mancar di fede, mi farei scorticare.
Dammi la tabacchiera. Ora mi scalderei.
Non ve ne son di simili? Non l’ho avuta da lei.
Moschino. Non ti scaldar, Mariano. Tu sei un uom da bene;
Ma a caso qualche volta nascon di queste scene.
Anche Lisetta istessa, che come te, ha giurato,
Senza voler parlare, l’arcano ha palesato.
E combinando insieme quel che da entrambi ho udito.
Donna Barbara è moglie, e il Conte è suo marito.
Ma sono un galantuomo, non dubitar di me.
Pria lo sapeste in due, or lo sappiamo in tre.

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Mariano. Giura di non parlare.

Moschino.   Marian, non so che dire;
Giurerei, ma se giuro, non mi vorrei pentire.
Anch’io son come gli altri, ho degli amici anch’io,
Potria qualche cosetta scappar dal labbro mio.
Noi altri servitori abbiam questo difetto,
Facciamo a non parlare un sforzo maledetto.
Marian, se mi vuoi bene, lasciami in libertà.
Che ci pensino dessi. Sarà quel che sarà. (parte)

SCENA II.

Mariano, poi Lisetta.

Mariano. Io non ho detto nulla. Chi mai potea pensare,

Che questa tabacchiera s’avesse a ravvisare?
Ma negar io poteva la man che me l’ha data,
E per me la faccenda sarebbe ancor celata.
Lisetta ha fatto il male. Ella svelò il mistero.
E donna, e tanto basta... Eccola qui davvero.
Lisetta. La padrona vi chiama. (mostrandosi alterata)
Mariano.   Che vuol? (mostrandosi sdegnato)
Lisetta.   Far colazione.
(come sopra)
Mariano. Cosa le ho da portare? (come sopra)
Lisetta.   Un’ala di cappone, (come sopra)
Mariano. La cioccolata, il brodo ed il cappone ancora?
(come sopra)
Lisetta. Via, la farete al solito aspettar più di un’ora?
(come sopra)
Mariano. Ma che maniera è questa?
Lisetta.   Uomo senza giudizio.
Mariano. A me?
Lisetta.   Per causa vostra nascerà un precipizio.
Mariano. Oh bella! a che proposito?

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Lisetta.   Vi ho perduto il concetto.

Me l’ha detto Moschino quel che gli avete detto.
Mariano. Brava, brava, signora. Voi siete la prudente.
io ho chiacchierato, e voi non diceste niente.
Lisetta. Cosa può dir Moschino? Non sono una ciarliera.
Mariano. Ed io che cosa ho fatto? Mostrai la tabacchiera.
Lisetta. Ei l’avrà conosciuta.
Mariano.   Certo, non ci pensai
Ch’egli la conoscesse; non lo credeva mai.
Lisetta. Non avete prudenza. L’ho detto in verità.
Che quella tabacchiera un dì ci scoprirà.
La conoscono tutti, e voi che che non è,
La tirerete fuori. Consegnatela a me.
Mariano. No no, non vi è pericolo, non farò più il sproposito.
Lisetta. Consegnatela a me, ve la terrò in deposito.
Mariano. La porrò nell’armadio.
Lisetta.   E se la trovan poi?
Mariano. Vi è lo stesso pericolo, se la consegno a voi.
Lisetta. Ho dei luoghi segreti, dove nessun ci tocca.
Mariano. La scatola mi piace, e nessun me la scrocca.
Lisetta. Se voi me la donaste, vi avrei l’obbligazione.
Mariano. Presto, che la padrona mi aspetta col cappone, (parte)

SCENA 111.

Lisetta, poi don Policarpio.

Lisetta. Non son quella ch’io sono, se a lui la tabacchiera

Non faccio dalle mani sparire innanzi sera.
Me l’ho cacciata in testa, non già per il valore,
Ma voglio superarla per un punto d’onore.
Policarpio. Andate un po’ a vedere che cosa ha la signora,
Che grida come un’aquila.
Lisetta.   Vuol mangiare a quest’ora.
Policarpio. Il cielo le conservi e la vista e l’udito.
Come la mia signora sta bene d’appetito.

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Fra un’ora o un’ora e mezzo andremo a desinare.

Ha preso il cioccolato, e adesso vuol mangiare?
Lisetta. S’ella la lascia fare, caro signor padrone,
Se troppo si nutrisce, non avrà successione.
Policarpio. Succession? Sì davvero, si vederan portenti,
Se una scala divide i nostri appartamenti.
Lisetta. Perdoni, mi fa ridere. Non è il padron?
Policarpio.   Padrone?
Non posso andare in camera senza sua permissione.
Se dorme, vuol dormire, e quando ch’ella è desta,
O che le viene il granfio, o che le duol la testa.
Non vuole ch’io le parli, non vuole ch’io la tocchi,
E se me ne lamento, tosto mi salta agli occhi.
Lo conosco benissimo ch’è senza convenienza,
Ma per non strepitare lo soffro con pazienza.
Lisetta. E contentarla in tutto il procurar non vale.
Povero il mio padrone, voi li spendete male. (parte)

SCENA IV.

Don Policarpio solo.

Oh se li spendo male! Perchè rimaritarmi,

Se non avea da prenderla un po’ per consolarmi?
Giacchè mi sono indotto a far la baggianata,
Almen più compiacente l’avessi ritrovata.
Quanto per me era meglio sposare una ragazza,
Che fosse meno nobile, e fosse meno pazza!
Oh, mi dicevan tanti: voi siete un uomo ricco;
Con una moglie nobile farete maggior spicco;
Se avrete dei figliuoli, saranno più stimati.
Oh oh, circa i figliuoli siam belli e corbellati.
Per me saria lo stesso la moglie aver dipinta,
E quando ch’io son morto, va la famiglia estinta.
Spiaeemi della figlia che ha un cervel sciagurato,
E non poss’io sperare di far buon parentato.

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Per altro s’ella fosse fatta come dich’io,

Vorrei a una mia morte tutto lasciarle il mio.
E se de’ figli maschi il ciel non mi provvede,
Vorrei vedere almeno un nipotino erede.
Ma è sciocca e senza garbo, e fino i cicisbei
Della signora sposa si burlano di lei.

SCENA V.

Il Duca e il suddetto.

Duca. Servitore umilissimo. (a don Policarpio)

Policarpio.   Padron mio riverito.
Duca. Eccomi ad accettare il suo gentile invito.
Policarpio. Non so nulla, signore.
Duca.   So ben che in queste porte
Le grazie son comuni fra il sposo e la consorte.
Se donna Petronilla m’invita a desinare.
La moglie ed il marito mi convien ringraziare.
Policarpio. Viene a pranzo da noi?
Duca.   L’invito mi fu fatto
Or or dal vostro servo.
Policarpio.   Non ne so nulla affatto.
Duca. Lo saprà la signora. Tutto è di già lo stesso.
Sono a entrambi tenuto. Signor, con suo permesso.
(va a mettere sopra una sedia la spada ed il cappello)
Policarpio. Si accomodi, padrone, con tutta libertà.
Duca. In casa degli amici so anch’io come si fa.
Policarpio. In casa degli amici, signor, chi sa il trattare,
Le fanciulle onorate non si va a corbellare.
Duca. Siete, don Policarpio, siete in error davvero.
Anzi, giacchè siam soli, vi svelerò un mistero.
Signor, la vostra figlia....

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SCENA VI.

Il Cavaliere e detti.

Cavaliere.   Servitore obbligato.

Policarpio. Che comanda, signore? (al Cavaliere)
Cavaliere.   Vengo al pranzo invitato.
Policarpio. Da chi?
Cavaliere.   Dalla padrona.
Policarpio.   Ed io che cosa sono?
Cavaliere. E dell’uno e dell’altro è generoso il dono.
Policarpio. Io sono un uom sincero, vo’ dir la verità.
Non ci ho merito alcuno.
Cavaliere.   Effetto di umiltà.
Duca. Cavatevi la spada, mettete giù il cappello.
Fate come ho fatt’io. (al Cavaliere)
Policarpio.   (Anche quest’altro è bello).
(da sè, accennando il Duca)
Cavaliere. Ecco, accetto il favore che mi vien accordato
Dal padrone di casa. (ripone la spada ed il cappello)
Policarpio.   (Ed io non ho parlato), (da sè)
Duca. La padrona di casa andate a riverire,
Perchè a don Policarpio qualche cosa ho da dire.
(al Cavaliere)
Cavaliere. (Temo ch’ei mi prevenga, e d’impedir mi preme...)
(da sè)
Parlate pure, andremo a riverirla insieme. (al Duca)
Duca. Udite una parola. (a don Policarpio, tirandolo in disparte)
Policarpio.   Eccomi, son da lei.
(al Duca, accostandosi)

SCENA VII.

Il Conte e detti.

Conte. Servo, don Policarpio, servo, signori miei.

Policarpio. Sì presto, signor Conte, anch’ella è ritornato?
Conte. Del generoso invito protestomi obbligato.

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Policarpio. Viene a pranzo ancor ella?

Conte.   Le vostre grazie accetto.
Policarpio. (Senza ch’io sappia nulla, oggi si fa banchetto), (da sè)
Duca. (Ora non vi è più tempo, la cosa ha i suoi riguardi).
(da sè)
Policarpio. Cosa voleva dirmi? • (al Conte)
Duca.   Ci parlerem sul tardi.
(a don Policarpio)
Policarpio. Non si cava la spada? Gli altri han fatto così.
(al Conte)
Conte. Andiam dalle signore.
Policarpio.   La mia signora è qui.

SCENA VIII.

Donna Petronilla e detti.

Petronilla. Bravi, signori miei, avete fatto bene.

Quando si vien da noi, sollecitar conviene.
Qui si pranza per tempo.
Policarpio.   Oggi si pranzerà
Più tardi dell’usato. (a donna Petronilla)
Petronilla.   Vi è qualche novità?
(a don Policarpio)
Policarpio. Lo dico, perchè or ora faceste colezione.
Petronilla. Oh, che cosa ho mangiato? un’ala di cappone
E un pezzetto di pane, cosa che mi ha servito
Per confortar lo stomaco e aguzzar l’appetito.
Policarpio. Il ciel vi benedica.
Petronilla.   Fate avvisare il cuoco,
E fin che si dà in tavola, noi sederemo un poco.
Conte. Servitevi, signora. (gli dà una sedia)
Petronilla.   No, per me non è buona.
Mi piace di star comoda. Dov’è la mia poltrona?
Cavaliere. Eccola. (va a prender la poltrona)
Duca.   Vengo anch’io. (va ad aiutare a portar la poltrona)

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Conte.   Questo si aspetta a me.

(va per prendere la poltrona)
Petronilla. (Bella cosa è il vederli a gareggiare in tre). (da sè)
Ora sto ben. Sedete; in piè non si ha da stare.
Cavaliere. (Non convien disgustarla). (siede vicino a donna Petronilla)
Duca.   (Convien dissimulare).
(siede vicino a donna Petronilla)
Petronilla. Conte. (teneramente)
Conte.   Il posto è occupato. (mostra dispiacere)
Petronilla.   (Ha le lagrime agli occhi).
(da se)
Policarpio. Mettete quella sedia dinanzi a’ suoi ginocchi. (al Conte)
Petronilla. Una volta per uno. (al Conte)
Conte.   (Davver, poco mi preme). (da sè)
Policarpio. Dunque venite qui. Ragioneremo insieme.
(al Conte, e siedono da un canto il Conte e don Policarpio)
Petronilla. Cavalieri, se avrete per me della bontà.
Della mia discretezza nessun si dolerà.
Policarpio. La mia signora sposa ha un animo compito,
Quel che non può vedere, è il povero marito.
Petronilla. Se di me vi dolete, siete del ver nemico.
Policarpio. Eh signora consorte, so io quello che dico.
Petronilla. È pazzo il poverino. (piano al Duca ed al Cavaliere)
Duca.   Fa torto a sua bontà.
(piano a donna Petronilla)
Cavaliere. Con una moglie simile che desiar mai sa?
(piano a donna Petronilla)

SCENA IX.

Donna Barbara e detti.

Barbara. È permesso, signori? (tutti tre i cavalieri si alzano)

Petronilla.   Eccola. (con sdegno)
Policarpio.   Che volete?
(a donna Barbara)

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Duca. Favorisca. (esibendo la sedia a donna Barbara)

Cavaliere.   S’accomodi, (esibendo la sedia a donna Barbara)
Petronilla.   Fermatevi, e sedete, (al Duca e al Cavaliere, facendoli sedere per forza.)
Barbara. Caro il mio signor padre, non mi può più vedere?
Che cosa mai le ho fatto? Mi lasci un po’ sedere.
(a don Policarpio)
Policarpio (Poverina! per dirla, mi fa compassione). (da sè)
Barbara. Permette un pocolino? (a don ’Policarpio)
Policarpio.   Via, vi do permissione.
Conte. Eccovi la mia sedia. (a donna Barbara)
Barbara.   E voi?
Conte.   Ne prendo un’altra.
(va a prendere un’altra sedia)
Barbara. Appresso il signor padre, (siede vicino a don Policarpio)
Petronilla.   (Come sa far la scaltra).
(da sè)
Conte. Se permette, la sedia alla sua sedia accosto.
(a donna Barbara)
Barbara. Eh caro signor Conte, questo non è il suo posto.
I cavalier non mancano, quando sono impegnati.
(accennando donna Petronilla con finto sdegno)
Conte. Non vedete, signora? sono i luoghi occupati.
Barbara. Per me vi parlo schietto, non fo da comodino;
Io sto col signor padre, non voglio alcun vicino.
Policarpio. (Cara la mia figliuola, siate un po’ più civile;
Con chi vi usa rispetto, mostratevi gentile.
Siete un po’ troppo ruvida; se non vi cambierete,
Credetemi, figliuola, non vi mariterete).
(piano a donna Barbara)
Barbara. Io parlo come penso, e tratto come soglio.
Ii Conte davvicino, signore, io non lo voglio.
(a don Policarpio forte)
Petronilla. Non vuol vicino il Conte, di già si dichiarì.
Ma se vi andasse il Duca, non parleria così.

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Duca. Per evitar le liti, andrò, se il permettete.

(a donna Petronilla alzandosi)
Cavaliere. Anderò io, signora. (o donna Petronilla alzandosi)
Petronilla.   Fermatevi, e sedete.
(al Duca e al Cavaliere, facendoli sedere per forza)
Policarpio. Conte, non le badate. Sedete, io vel permetto.
Conte. Non vorrei dispiacerle, (sedendo vicino a donna Barbara)
Barbara.   (Che tu sia benedetto).
(piano al Conte)
Duca. Spiacemi donna Barbara vedere un po’ alterata.
Cavaliere. Verrà forse quel tempo, che sarà consolata.
Duca. E non tarderà molto.
Petronilla.   Dico, signori miei.
Volete parlar meco, o ragionar con lei?
(al Duca ed al Cavaliere)
Vi burlano, sapete. (a donna Barbara)
Policarpio.   Non crederei tal cosa.
Barbara. Che mi burlino pure, alfin... (son vostra sposa).
(piano al Conte)
Conte. Io non burlo, signora. (a donna Barbara)
Petronilla.   Credete ai detti sui?
(a donna Barbara)
Barbara. Burlata anche dal Conte? (a donna Petronilla)
Petronilla.   Sì certo, anche da lui.
(a donna Barbara)
Barbara. Oh, che burlino gli altri, non me n’importa un fico.
Non ho riguardo alcuno, in faccia ve lo dico.
Signor Conte carissimo, cogli altri io tacerei.
Ma un’insolenza simile da voi non soffrirei.
Questo pensier villano cacciatel dal pensiero,
Non vo’ che mi burliate. (Vo’ che facciam davvero).
(queste ultime parole piano al Conte)
Policarpio. Ha ragione mia figlia. Anch’io nol soffrirò. (al Conte)
Conte. Signor, ve lo protesto. Io non la burlerò.
(a don Policarpio)

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SCENA X.

Moschino e detti.

Moschino. È in tavola, signori.

Petronilla.   Presto, presto, a mangiare.
(si alza, e si alzano tutti)
Conte. Permette ch’io la serva?
(offre la mano a donna Barbara)
Barbara.   Eh, lasciatemi stare, (mostrando di scacciarlo, gli stringe la mano.)
Policarpio. (Ma che figliuola ruvida!) (da sè)
Petronilla.   Andiam, meco venite.
(dà mano al Duca ed al Cavaliere)
Conte, per questa volta, non so che dir. Soffrite.
(parte col Duca ed il Cavaliere)
Conte. Almen per questa volta.
(offre la mano a donna Barbara)
Barbara.   Voi mi movete a sdegno.
Voglio andar da me sola.
Policarpio.   Puh! che testa di legno.
(a donna Barbara)
Barbara. Dite a me? (a don Policarpio)
Policarpio.   Dico a voi. Non si accetta un favore?
Barbara. Lo fo per ubbidire al signor genitore. (fa una riverenza a don Policarpio, e poi dà mano al Conte e parte con lui.)
Policarpio. Cosa ti par, Moschino, di questa mia ragazza?
Non par ch’ella sia nata da un birbone di piazza?
Moschino. Eh signore, è più furba di quel che voi credete.
Policarpio. Furba codesta sciocca?
Moschino.   Quel ch’io so, non sapete.
Policarpio. Narrami qualche cosa.

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Moschino.   Ci parlerem stassera.

Ho saputo un negozio di certa tabacchiera.
Andiamo, andiamo a tavola, che non si dia sospetto.
Oh le donne, signore... saprete un bel casetto. (parte)
Policarpio. Che sotto la finzione vi fosse un qualche inganno?
Eh, ho gli occhi nella testa. A me non me la fanno.
(parte)

Fine dell’Atto Terzo.


Note