Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Monsieur Rigadon e Ridolfo.

Rigadon. Grazie al cielo, sto bene. Ho ben mangiato.

Dopo del desinare ho un po’ dormito;
Son propriamente refiziato.
Ridolfo. Siete, per dirla, un uomicciol compito;
Quando in casa da voi si fa baldoria,
A me non fassi il generoso invito.
Pur di me dovevate aver memoria,
Che vi ho fatto locar la ballerina
Con profìtto comune, e con mia gloria.
Rigadon. Vi voleva invitar questa mattina.
Ma mi è andato di mente; trar di secoli

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Qualche volta mi suol la Giuseppina.

Per quanto serio attentamente i’ specoli
Per conoscere il cor di quella donna,
Non arrivo a capirlo in dieci secoli.
A me talora, come a sua colonna
Par ch’ella pensi; e poi se dolcemente
Seco parlo d’amor, sbaviglia e assonna.
Ridolfo. Maestro mio, dirò sinceramente
E con vera amistà quel che mi pare
Intorno ai grilli della vostra mente.
La peggior cosa che possiate fare
Contro il vostro interesse, è il far l’amore
Colle vostre dolcissime scolare.
Prima di tutto il loro precettore
Non lo stimano più. Rende l’affetto
L’alterigia del sesso ancor maggiore.
O non fanno niente, o per dispetto
Fanno le cose, e il maestro innamorato
Non può, non sa correggere il difetto.
E se talvolta per lo zelo irato,
Colle scolare a taroccar si mette,
Corre periglio d’esser malmenato.
E in vece di ritrar dalle civette
L’util corrispondente alla fatica,
E l’unguento e le pezze vi rimette.
Amico mio, non fate che si dica,
Che monsieur Rigadon nella sua scola
Tenga le mule per la sua lettica.
Rigadon. Dite ben, dite ben; vi do parola,
Che tutte le terrò in soggezione;
Altra non voglio amar, che questa sola.
Anzi per dirvi la mia intenzione,
Ho pensato di prenderla in isposa
Per terminar di mettermi in canzone.
Ridolfo. Giuseppina è contenta?

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Rigadon.   È sì amorosa

Qualche volta per me, che son sicuro
Sarà di questo fatto desiosa.
Ridolfo. Godo ancor io del vostro ben venturo;
Ma pria pensar dovreste alla germana;
Anch’ella è in stato nubile, maturo.
Rigadon. Ci avrei pensato; ma è cotanto strana,
Che albero non ritrova che l’appicchi,
E si cambia d’umore ogni semmana.
E poi sapete come noi siam ricchi!
Per maritarsi com’ella vorria,
Ci vuol altro che dir chicchi bichicchi,
Ci vogliono de’ giuli; e in casa mia
Colla cena contrasta il desinare:
Converrà ch’ella soffra, e che ci stia.
Ridolfo. Fatemi grazia. Intesi dir, mi pare,
Che certa dote le lasciò uno zio,
Per quando si volesse accompagnare.
Rigadon. Chi vi ha detto tal cosa?
Ridolfo.   La sepp’io
Dal notare, che ha fatto il testamento.
Rigadon. (Maledetto notar nemico mio!)
Ella non è per or di sentimento
Di voler maritarsi.
Ridolfo.   Ed io sospetto
Sia vicino di lei l’accasamento.
Rigadon. Qualche briccon, qualche birbante aspetto
Se le metta d’intorno; se lo scopro,
Voglio farlo pentir, ve lo prometto.
Sono degli anni che l’ingegno adopro.
Perchè la suora mia da me non vada,
E con ragion l’intenzione scopro.
Ora se ciò per mio malanno accada,
Se la seduce tnstamente alcuno,
Di rovinarlo troverò la strada.

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Voi, Ridolfo, potreste più d’ognuno

Scoprir la verità di questo fatto.
Ridolfo. Io l’avrei da saper più di nessuno.
Fidatevi di me, che ad ogni patto
Tutto vi narrerò quel che succede
(Dopo che il matrimonio sarà fatto). (via)
Rigadon. Mancherebbemi ancor questa mercede:
Che mi portasse via la mia germana
Quel di cui fu lasciata unica erede.
Ma se correr anch’essa alla quintana
Nella giostra d’amor volesse un giorno,
Interromper la lizza è cosa vana.
Quando una donna s’è ficcato intorno
Il desio d’una cosa, nol dismette,
Se tu la cacci a roventare in forno.
In ogni caso, se il destin permette
Che Giuseppina sposa mia divenga,
Uno stato miglior mi si promette.
Oltre l’amor, vuol che a costei m’attenga
L’interesse medesmo, e ch’usi ogn’arte.
Perchè l’assenso dal suo cor si ottenga.
Le scolare e i scolari in varia parte
Andranno poscia a esercitare il ballo.
Ed i’ avrò del danar la maggior parte.
Restand’io qui qual general nel vallo.
Mando al foraggio i miei commilitoni
A spogliare l’Ispano, il Prusso, o il Gallo
Ch’oggi l’Italia e l’estere nazioni
Pagano le ballate a peso d’oro,
E han fortuna per fino i bertuccioni.

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SCENA II.

Madama e detto.

Madama. Serva, signor fratello.

Rigadon.   Oh mio tesoro,
Che fate? state bene?
Madama.   In su le piume
Ho preso sei minuti di ristoro.
Rigadon. Cioè avete dormito.
Madama.   Per costume,
Talor mi piace il parlar figurato.
Rigadon. Di metafore ho anch’io qualche barlume.
Madama. Il linguaggio comune è sciagurato:
Dir mi vo’ maritare, è un dir villano;
Meglio è detto: son presso a prender stato.
Rigadon. È elegante, egli è ver; ma non è strano.
Meglio detto sarebbe a parer mio:
Vo’ dar pastura al mio desire insano.
Madama. Turba d’insani giubilar vegg’io,
E l’impazzire colla maggior parte
Lodar sovente, ed approvar s’udio.
Rigadon. Mi sovviene aver letto in dotte carte:
Non si conosce il mal se non si prova;
Non si conosce il ben se non si parte.
Madama. Sempre chi cerca il bene, il mal non trova.
Rigadon. Ma se ritrova il mal, tardi si pente;
Che il pentirsi da sezzo nulla giova.
Madama. Lo soffre in pace chi al desir consente.
Rigadon. Non è saggio colui che arrischia il bene.
Madama. Chi non arrischia, non guadagna niente.
Rigadon. Sorella, in cuor qual fantasia vi viene?
Madama. Non perdiamo di vista il parlar colto.
Mi mette in frega il coronato Imene.
Rigadon. Il piacer d’Imeneo non dura molto.

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Madama. Amore ed Imeneo son due fratelli.

Rigadon. Non vi fidate del fratel d’un stolto.
Madama. Come fia, che l’amor stolto s’appelli,
Se la natura ha destinato al mondo
Uomini a conservar belve ed augelli?
Rigadon. Brevemente all’obbietto io vi rispondo.
Serva chi vuole al dritto di natura;
Perchè abbiam noi da sofferir tal pondo?
Madama. O legger pondo! o amabile sciagura!
O soavi martiri! o dolci pene!
O catena d’amor lieve, e non dura!
Rigadon. Sorella mia, da ridere mi viene.
Siete assai romanzesca, e chi vi sente,
Ci dirà che siam pazzi da catene.
Madama. Del nostro ragionar che sa la gente?
Parlo fra voi e me; per darvi gusto.
Parlerò dunque più trivialmente.
Signor fratello mio, parvi sia giusto
Di pensare una volta a maritarmi?
Rigadon. Ve l’avete trovato il bell’imbusto?
Madama. Io ci ho da stare, ed io vo’ soddisfarmi.
Basta che non mi abbiate a contradire,
Se la mia dote pregovi di darmi.
Rigadon. L’umido e la stagion mi fe’ assordire.
Non intendo a suonar questa campana.
Madama. Tristo è quel sordo che non vuol sentire.
Rigadon. Siete giovane assai, cara germana;
Tempo non manca da soffrire i guai;
Un altro anno si dice alla beffana. (via)
Madama. Questa risposta me la figurai.
Se l’anno aspetto, che al fratel sia in grado,
Le mie calende non arrivan mai.
Fatt’ho quel che conviene al sesso e al grado;
Sola saprò col condottier Cupido
Nella valle d’amor passare il guado. (via)

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SCENA III.

Rosina, Lucrezia e Carlino.

Rosina. Eh, lasciate parlare. (a Lucrezia)

Lucrezia.   Non mi fido.
Vo’ sentire ancor io quel che ti dice.
Carlino. Un segreto importante io le confido.
Lucrezia. Un segreto importante a lei non lice
Confidare così segretamente,
Senza che il sappia la sua genitrice.
Rosina. Se mi volete ben, siate prudente.
Confidate a lei pur cotesto arcano. (a Carlino)
Carlino. Ma lo dirà...
Lucrezia.   No, non dirò niente.
Carlino. Sappiate che un amico di Milano
Scrive s’io voglio andare in Alemagna,
Al servigio d’un principe sovrano,
’Ve si fa poco, e molto si guadagna;
E d’accordare libertà mi dona,
E di meco condurre una compagna.
Se volete, venir vi fo padrona.
Rosina. Mamma, che dite voi?
Lucrezia.   No no, figliuola:
Con queste guerre non son sì minchiona.
Carlino. S’ella non vuol venir, venite sola. (a Rosina)
Rosina. Sola dovrei venir?
Lucrezia.   Sola! briccone.
Carlino. Di sposarvi, mio ben, vi do’ parola.
Lucrezia. La mia figlia levarmi si propone?
Mi vuoi assassinar, brutto cosaccio?
Anderò alla giustizia, mascalzone,
Se il vivere con lei non mi procaccio.
Come poss’io campar, povera grama?
Ci mancava cotesto animalaccio.

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Rosina. Se il mio Carlino di sposarmi ha brama,

Non lascerà la madre mia in un canto:
Ne terrà conto, se da ver mi ama.
Carlino. Giovane sono; ma d’aver mi vanto
Sensi onorati, e son di sentimento.
Che stiate meco, o di passarvi un tanto.
Lucrezia. Delle ciarle d’un uom non mi contento;
Se volete sposar la mia ragazza,
Voglio che mi facciate un istrumento.
So quel che fan quei della vostra razza;
Soffrono per un poco, e dicon poi
Non crepa mai codesta vecchia pazza?
Voglio per patto, se ho da star con voi,
La signora Lugrezia esser chiamata,
E per tutto venir con ambidoi.
Vo’ ogni mattina la mia cioccolata,
E ordinar la cucina a modo mio,
E ber vin puro tutta la giornata.
Voglio tener dei quattrinelli anch’io
Per il tabacco, o per giuocar al lotto,
E per qualch’altro accidental disio.
E se trovo in Germania un giovinotto
Che piaccia a me, ch’io non dispiaccia a lui,
Mi vo’ con esso maritar di trotto.
Non mi attristano ancora i giorni bui,
Di qualche grinza maculato ho il volto;
Ma sotto panni son però qual fui.
Finalmente da voi non chiedo molto:
Trovate il sere, distendiam la scritta,
Altrimenti le berte io non ascolto.
Carlino. Formate al memorial la soprascritta,
E mandatela al Duca dei corbelli,
Che vi sarà la grazia sottoscritta. (via)
Lucrezia. Lo senti il ghiotto? cotesti son quelli,
Che stanno alla veletta cogli aguati.

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E guai se non vi fosser chiavistelli!

Dice ti vuol condur dai potentati!
Non gli credere un zero. Linguacciuto!1
Principe, imperator degli sguaiati;
Sei la mia figlia ad annasar venuto?
Nasa me, e lo vedrai, se un’erba i’ sono
Di provocar capace lo starnuto.
Rosina, odi tu ben quel ch’io ragiono;
O discaccia da te quel pipistrello,
O lo farai delle ceffate al suono. (via)
Rosina. Saria stato Carlino il buono e il bello.
Se le avesse accordato i suoi capricci;
Dunque a ragion dal suo voler mi appello;
Strilli, se far mi vede dei pasticci;
Ma se cerco di uscir dal labirinto,
li filo tra le mani non m’impicci.

SCENA IV.

Monsieur Rigadon e detta.

Rigadon. Rosina, ad insegnarvi eccomi accinto:

Quest’è la solit’ora della scuola.
Or verran tutti al genial recinto.
Ho ben piacere di trovarvi sola.
Voglio insegnarvi alcune regolette
Necessarie da prima a una figliola.
Rosina. E mi saran le istruzioni accette. (a Rigadon)
(Per poco dee durar la seccatura,
Se Carlino mantien quel che promette). (da sè)
Rigadon. Figlia, nel mondo per aver ventura
Non basta il merto, e la virtù non giova,
Quando unite non siano arte e natura.

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Prima di tutto un protettor si trova,

Che faccia autorità, che prenda impegno.
Che le recite cerchi, e le promova.
E giunta poi della fortuna al segno,
Se vi stanca e v’annoia il protettore,
Per discacciarlo non vi manca ingegno.
Badate ben non vi corbelli amore:
Serbate sempre l’animo robusto;
Finezze a tutti, ed a nessuno il core.
Se vi viene d’intorno un bellimbusto,
Un cacastecchi, un misero scannato,
Scacciatelo da voi col mazzafrusto.
L’universal tenetevi obbligato.
Mostrando nel ballar la pantomina.
Or con questo, or con quello aver scherzato.
Già lo sapete, ch’oggi come prima
Non si attende del ballo al fondamento;
Ma chi più salta e chi più scherza è in stima.
Cambiano i ballerini il vestimento;
Ma fanno sempre quei medesmi salti,
Mascherati con qualche abbellimento.
Perchè una donna o un ballerin s’esalti,
Basta che faccia a chi ne può far più,
E giri intorno, e si rannicchi, e salti.
Per ordinario tutti i padedù
Han principio ed han fine a una maniera;
Vanno i compagni a principiarlo in su.
La donna fugge, l’uomo si dispera.
L’una intanto riposa, e l’altro balla.
Poi corrucciato si dimostra in ciera.
Vola la donna, come una farfalla:
Finge l’uom non vederla, ella lo chiama,
E gli batte la man sovra la spalla.
L’uom si risente, e di far pace ha brama;
Sdegno affetta la donna per vendetta,

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L’orche, la scimia, a contrafar si chiama.

Poi s inginocchia ed il perdono aspetta.
Lo alza la bella, e con i piè gli dice:
Vuoi ballare con me la furlanetta?
Ecco gente che vien: di più non lice
A me dirvi per ora. Il quadro è fatto,
Manca che vi mettiamo la cornice.

SCENA V.

Rosalba, Filippino, Carlino e detti.

Rigadon. Sempre tardi venite, ed io mi adatto

Al piacere comun; ma vorre’ poi
Che voi di me non vi abusaste affatto.
Pensi ognuno a far bene i dover suoi.
(Giuseppina cogli altri non si vede).
Vo’ a pigliare il violino, e son da voi. (via)
Carlino. (Rosina, il nostro affar pronta richiede
Risoluzione). (piano a Rosina, e siede)
Rosina. (Io non mi ritiro;
Ma mia madre dov’è, che non si vede?)
(a Carlino, e siede)
Rosalba. (Ma queste nozze stabilir sospiro). (a Filippino)
Filippino. (Troverassi il notaro, e i testimoni). (a Rosalba)
Rosalba. (Per lo soverchio differir m’adiro). (tutti siedono)

SCENA VI.

Felicita e detti.

Felicita. (Maledetti pur siano i balli e i suoni.

Andar raminga, il ciel me lo perdoni.
Se torna il Pistoiese, di nascosto
Vo’ accordarmi con lui per commediante;
Voglio uscir di Firenze ad ogni costo). (siede)

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SCENA VII.

Monsieur Rigadon col violino. Il Conte, Giuseppina e detti.

Rigadon. Ma ve l’ho detto tante volte e tante:

Quando è l’ora del ballo, qui si viene,
E non si sta col cavaliere errante. (a Giuseppina)
Conte. (Sofferirlo per poco ci conviene). (a Giuseppina)
Giuseppina. (A questo patto odierei la vita). (al Conte)
Conte. (Non dubitate, vi trarrò di pene).
(a Giuseppina, e siedono)
Rigadon. Dunque per prima a favorir s’invita
La signora Felicita, e vorrei (ironico)
Che tanto fosse brava, quanto è ardita.
(tocca il violino)
Felicita. Caro signor maestro, non saprei
Se il mio temperamento le dà noia.
Creda ch’io ne son sazia più di lei.

SCENA VIII.

Ridolfo, poi Madama.

Ridolfo. Amico, l’impresario di Pistoia

È qui di fuori, burbero, accigliato.
Che batte i piedi e che il veleno ingoia;
E un notaro con seco si è menato
Di quei degli Otto, e dubito che siate
Per cagion di Felicita accusato.
Rigadon. Per carità, non mi precipitate:
Se siete dalla curia esaminata,
O bene, o mal, per carità ballate. (a Felicita)
Felicita. Ma se al ballo, signor, non son portata.
Rigadon. Fatelo all’onor mio per far riparo.
Madama. Signor fratello, vi sono obbligata.
Rigadon. Di che?

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Madama.   Veduto ho per di là il notaro:

Voi l’avete per me fatto venire,
E le mie nozze a stabilir preparo.
Rigadon. Corpo di bacco! mi faresti dire.
Ho la versiera e il diaschine d’intorno,
E voi pur mi venite a infastidire?

SCENA IX.

Don Fabrizio, un Notaro e detti.

Fabrizio. Signor notaro, a replicar non torno

Quel che vi dissi. Quella è la fanciulla:
Eccovi i testimoni intorno intorno.
Rigadon. E giovinetta, ed il cervel le frulla:
Quando non vuol ballar, non sa ballare.
Notaro. Questa ragion non contasi per nulla.
Prima di tutto si ha a depositare
Il danaro che a voi diè l’impresario,
Quando alle Stinche non vogliate andare.
Rigadon. In prigione un par mio? Qualche falsario
Vi credete ch’io sia? Ecco, signore.
La porzion ch’ebb’io dell’onorario. (dà una borsa)
Notaro. Ed il resto dov’è?
Rigadon.   L’ebbe il sensale.
Notaro. Favorisca il danar che s’è pigliato.
Ridolfo2. Eccolo, glielo rendo tale e quale.
(Era questo danaro destinato
Malamente a perir; noi l’abbiam reso,
E in peggior mani delle nostre è andato).
Rigadon. Voglio dalla giustizia essere inteso.
Sufficiente è la donna, ed io pretendo
Essere a torto nell’onore offeso. (al Notaro)
Notaro. Un processo verbal formare intendo.

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Sentirò quel che dicono gli astanti:

La verità dai testimoni attendo.
E voi, monsieur, levatevi dinanti
Dal loro aspetto; e tornerete poi,
Quando avrò esaminati tutti quanti.
Rigadon. Faccia pur la giustizia i dover suoi.
(I miei scolari non saranmi avversi).
Figliuoli miei, mi raccomando a voi. (via3)
Notaro. Confessatemi il ver, se può sapersi.
Siete brava nel ballo? (a Felicita)
Felicita.   In verità,
L’impresario i danari avria mal persi.
Domandetelo a tutti, ognuno il sa;
Anzi quel ben che ho ricusato innante,
Vi domando, signor, per carità. (a don Fabrizio)
Ora che Rigadon reso ha il contante;
Or, che non resta al dorso mio tal peso.
Conducetemi a far la commediante.
Fabrizio. Ben volentieri. E voi che avete inteso (al Notato)
Il suo desire e il mio cortese assenso,
Fate che l’atto sia fra noi disteso.
Notaro. Registro il patto, e poi farollo estenso. (scrive)
Siate voi testimoni del contratto.
Madama. Io vi oppongo, signore, il mio dissenso.
La scritta in pria col mio germano ha fatto:
Dee mantenerla.
Notaro.   Se ballar non vuole,
È il volerla forzar pensier da matto.
Rosalba. Signor notaro, ascolti due parole:
Noi siamo amanti, e ci vorrem far sposi.
Notaro. Vi concedano i dei salute e prole.
Filippino. Filippino son io degli Acetosi.
Rosalba. Io Rosalba dal Cedro.

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Notaro.   Testimoni (icrive)

Siate voi tutti dei nodi amorosi.
Carlino. Signor, giacchè si fanno i matrimoni.
Stipulate anche questo fra di noi:
Io mi chiamo Carlino dei Petroni.
Rosina. Io Rosina Latuca.
Notaro.   Ancora voi
Registrati sarete al tacuino;
E le scritture si faran da poi.
Giuseppina. Conte, noi che facciam?
Conte.   Se amor bambino
Mi concede goder la vostra mano,
Io non posso sperar miglior destino.
Giuseppina. A cotanta bontà resisto invano.
Scriva, signor notar; registri il nodo:
Giuseppina Aretusi e il Conte Alfano.
Notaro. Viva Imeneo; da galantuom la godo. (scrive)
Madama. Che novità, che impertinenza è questa!
Voi mi fareste delirar sul sodo.
Parvi cosa decente e cosa onesta
Far il ballo d’amore in casa mia,
E ch’io non abbia a principiar la festa?
Troppa del mio decoro ho gelosia;
Non lo voglio soffrire a verun patto:
Maritare mi vo’ d’ogn’altro in pria.
Scriva, signor notaro, il mio contratto:
Io madama Sciarman per sposo accetto
Il mio caro Ridolfo Scaccomatto.
Ridolfo. Ed io Madama di sposar prometto.
Colla condizione della dote.
Madama. Per la dote lo fai?
Ridolfo.   No, per affetto.
Notaro. Per far quel che convien, prese ho le note.
Venga il maestro pur, se venir vuole
(Si stupirà delle avventure ignote).

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SCENA X.

Rigadon e detti.

Rigadon. Fatte si sono delle gran parole:

Questo processo è terminato ancora?
Notaro. Venga il signor maestro, e si console:
Si son fatte gran cose in men d’un’ora
Rigadon. Quel che ne risultò si può sapere?
Notaro. Con buona grazia; lo saprete or ora. (via)
Rigadon. Qual debb’essere il fin, mi par vedere.
I cento scudi rimarran per lui,
E noi potremo grattarsi il sedere. (a Ridolfo)
Pazzo davvero a consegnarli io fui.
Venite qua, signora impertinente: (a Felicita)
Ballate un poco in faccia di costui. (vuol sonare)
Felicita. Signor maestro, serva riverente.
Rigadon. Dove andate?
Felicita.   A Pistoia.
Rigadon.   Ed a che fare?
Felicita. A recitar delle commedie a mente.
So che buona non sono per ballare:
Farò la commediante, e il mio maestro
Sulle mie spalle non potrà mangiare. (via)
Fabrizio. Voi siete un uomo valoroso e destro;
Ma usar la frode nei contratti suoi
Qualche fiata merita un capestro. (via)
Rigadon. Che il diavol se li porti, e se l’ingoi:
Poco ho perduto a perdere la nescia:
Alzatevi, Rosalba, tocca a voi. (col violino tocca)
Rosalba. S’ella è andata a Pistoia, ed io vo a Pescia.
Rigadon. Come sarebbe a dir?
Rosalba.   Con Filippino
Testè ci siamo coniugati in prescia.

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Rigadon. A me un tale sopruso? Oh me meschino!

Filippino. Noi andiamo a cercar nostra ventura.
Rosalba. E al maestro facciam un bell’inchino.
(via con Filippino)
Rigadon. A che serve, a che val la mia scrittura?
Se la fanno vedere al tribunale,
Per collusion si revoca a drittura.
Vi è quest’altra ragazza: manco male.
(accennando Rosina)
Rosina, fondo in voi la mia speranza;
Della vostra bontà fo capitale:
Su via, venite a principiar la danza. ((occa il violino)
Rosina. Risparmiate meco la fatica:
Ho del tempo a ballar, che me ne avanza.
Giust’è che a voi la verità si dica:
Vado col mio Carlino in Alemagna;
Io vi saluto, e il ciel vi benedica (via)
Carlino. Compatite, signor, se la lasagna
Vi è cascata di bocca. Chi vuol troppo,
Essere scorbacchiato si guadagna. (via)
Ricadon. Vattene a satanasso di galoppo;
Ballar ti faccia al suon delle catene
Una giga infernal col diavol zoppo.
Ma dagl’ingrati che sperar conviene?
Basta non mi abbandoni Giuseppina,
Ch’è meco obbediente, e mi vuol bene.
Via, venite a ballar, la mia regina. (suona)
Conte. Questa, che di virtude ha il core adorno,
A uno stato migliore il ciel destina.
Giuseppina. Lo star qui vosco reputai mio scorno:
Mosso il Conte a pietà de’ casi miei,
Diemmi il core e la destra in sì bel giorno.
Non poteano soffrire i giusti dei
Di un scostumato precettore ingordo
Le massime scorrette e i pensier rei.

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Lasciovi nel partir questo ricordo;

Se bramate del ben, fate del bene.
Che l’inferno ed il ciel non van d’accordo. (via)
Conte. Un’altra cosa aggiunger mi conviene:
Lamentarvi di ciò non siate4 ardito.
Che pagherete dell’ardir le pene. (via)
Rigadon. Resto nell’interesse e in cor ferito,
E non ho da parlar? che dite voi?
Parvi che sia ridotto a mal partito? (a Madama)
Un balletto formar possiam fra noi.
Madama. Con Ridolfo la danza a far mi appresso;
Egli la suona cogli affetti suoi.
L’anno della Befana è giunto presto;
Questi è il consorte mio, se nol sapete;
Io vi saluto, ed ei vi dica il resto. (via)
Ridolfo. Il resto che ho da dir, lo prevedete:
Preparate la dote alla germana.
Altrimenti per forza la darete. (via)
Rigadon. Oh caso inaspettato! oh sorte strana!
Mi abbandonano tutti. Or da me solo
Suonar posso, e cantar la chiarenzana.
Fortuna non si speri aver con dolo;
Chi semina fra i sterpi, il prun ricoglie.
Non produce cornacchia l’ussignolo.
Chi cerca d’arricchir coll’altrui spoglie,
Rimane al fin del ballo scorbacchiato;
Come fa il ballerin fra queste soglie.
O voi che avete l’animo inclinato
Al sentier di virtù, ch’è di voi degno.
Ridete del Maestro corbellato;
E date a noi d’aggradimento un segno.

Fine della Commedia.


Note

  1. Così devesi correggere il testo dell’ed. Zatta, dov’è stampato L’ingracciuto!
  2. Manca nell’ed. Zatta.
  3. Manca nell’ed. Zatta.
  4. Nell’ed. Zatta: siete.