La scuola di ballo/Nota storica
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NOTA STORICA
L’anno comico 1758-59 era stato disgraziatissimo per il teatro di S. Luca. Delle sei composizioni nuove consegnate dal Goldoni, tre fatte recitare nell’autunno (la Sposa sagace, la Donna di governo e la Dalmatina: - le Morbinose si devono manifestamente assegnare alla fine del carnovale 1758) e tre nel carnovale (la Donna capricciosa o bizzarra, la Sposa fedele e i Morbinosi) una sola erasi salvata, la Dalmatina (v. lettera di Franc. Vendramin al Gold., in C. G. e il teatro di S. Luca a Ven. ecc. per cura di D. Mantovani, Milano, Treves, 1885, p. 118). Il Vendramin ne incolpava in parte la lontananza del commediografo, a cui pentivasi di aver permesso d’intraprendere il viaggio a Roma; il commediografo accusava il malanimo degli attori stessi verso di lui (l. c., 97; e 94, 103), e pensava come vendicarsi nobilmente del pubblico, che accorreva al teatro di S. Samuele ad ammirare i lazzi del truffaldino Sacchi (l. c., 97). «Venezia è stanca dei caratteri famigliari, Venezia vuol novità» scriveva ai 17 marzo ’59 (l. c., 106); e il Vendramin di rincalzo: «Le comedie in presente piacciono quando sono teatrali, e non di parole, o di solo carattere» (c. s., 117-8).
Il Goldoni dunque nell’ottobre del 1759 pensò di sorprendere i suoi concittadini con un prologo poetico intitolato il Monte Parnaso (una bizzarria simile invaghì il Chiari nell’autunno del ’51, non già ’49 come fu stampato nelle Poesie e Prose dell’abate, Ven., Pasinelli, 1761, II, 127 sgg.) in cui le nove muse promettevano un componimento per ciascuna, commedie in prosa e in verso, tragedie, tragicommedie di tutti i generi, per tutti i gusti (v. lett. da Bologna al Vendramin, 21 ag. ’59, e il Prologo stesso stamp. nel 1759, Ven., Pitteri, rist. nell’ed. Zatta, cl. 3a, t. X). La stagione fu inaugurata con scenica pompa dagli Amori di Alessandro Magno, ai quali seguì modestamente la Scuola di ballo, annunciata così da Tersicore nel Prologo: «Io Tersicore, amante - Della gioconda variabil danza; - Io, che a destar carole - All’arpa armoniosa - L’agili dita dolcemente adatto, - E le Ninfe e i Pastori - Me in ricompensa coronar di fiori, - Io la bell’arte del piacevol ballo - Avvilirò per poco, - Comico usando dilettevol gioco. - Adoprerò uno stile - Sulle comiche Scene - Nel Secol nostro non usato in prima. - Scriverò in terza rima; e le parole - E le frasi talvolta, e i motti strani - Contenteran gl’imitator Toscani». E già con parole poco diverse, benchè in tono più dimesso, il Goldoni nella citata lettera del 21 agosto aveva spiegato al patrizio Vendramin il proprio concetto: «Tersicore presiede al ballo, ed ecco la seconda comedia, intitolata: La scuola di ballo, scritta in un stile novissimo sul Teatro, cioè in Terza rima, o sia in Terzetti, che è il metro più confacente alla Danza; e siccome un tal metro è quello di cui si servirono i buoni autori di lingua, sentirà uno stile (chiaro bensì) ma terso, colto, e di tale impegno, che mi ha fatto studiare assai più del solito. Questa è la comedia che ora le spedisco» (l. c., 123-4). E più sotto: «Legga questa seconda commedia, che ora Le mando, e veda, se è studiata, considerata, e scritta con timor di Dio» (p. 129).
Trovasi questo cenno nei Notatorj inediti del Gradenigo presso il Museo Civico di Venezia, alla data 23 ott. 1759: «Nel Teatro di S. Salvatore [opp. S. Luca] si rappresenta una Comedia intitolata la Scuola del Ballo Comedia in 5 Atti, in una Scena sempre stabile, in versi di terza rima, composta dal Sig. Dottor C. Goldoni Poeta». Ma alle speranze dell’autore non corrispose l’esito della recita. Pur troppo il Vendramin era stato profeta, quando scriveva: «di una Comedia in Terzetti io temo, non per la Comedia, ma per il verso» (lett. dei 25 ag., l. c., 134); e invano erasi illuso il dottor veneziano («A quest’ora ella avrà letta la comedia in Terzetti, e son certo le sarà piaciuta, e mi comprometto, che quei versi e quelle rime vogliano dar piacere al Teatro»: lett. 28 ag., l. c., 140). — Vero è che più tardi il Goldoni non tentò nemmeno di difendere l’infelice componimento. Solo nella prefazione al primo tomo dell’ed. Pasquali, nel 1761, toccando la questione della lingua viva nelle commedie e condannando, contro cruscanti e granelleschi, l’uso dei «rancidi riboboli» toscani, così concludeva: «Non è malfatto, anzi è lodevolissimo, che siavi chi prenda cura di conservare una lingua, che è quasi morta, poichè dagl’Italiani medesimi inusitata; ma Dio mi guardi che io di ciò m’invaghisca. Dovrei pensare a tutt’altro che a scrivere pe ’l Teatro, e a dar piacere all’universale. Due volte mi son provato di farlo. Una volta seriosamente nella Scuola di Ballo, ed ho riscosso poco meno che le fischiate; un’altra volta in caricatura nel Tasso, e ne ho riportato l’universale compiacimento. Che vuol dir ciò? Il Lettore ne tragga la conseguenza» (vol. I della presente ed., p. 5).
Forse l’amaro ricordo fece sì che la commedia non potesse trovar luogo nei 17 volumi dell’ed. Pasquali (l’ed. Pitteri, tranne l’Osteria della posta, contiene i componimenti dall’ott. 1753 al carn. 59) e che per vedere la luce dovesse aspettare l’ed. Zatta, fino all’anno 1792. Non ebbe perciò l’onore di una lettera di dedica, nè d’una prefazione. Nelle Memorie goldoniane se ne trova appena il titolo nel catalogo finale, ed è, in francese, Le maître à danser (per errore si aggiunge in nota che non fu mai recitata). Nessun capocomico, che si sappia, nè prima della stampa, nè dopo, volle esporla di nuovo al giudizio del pubblico. I lettori stessi la lasciarono da parte; perfino gli studiosi se ne dimenticarono, o quasi.
Ma per noi, tarda progenie, che spingiamo con curiosità lo sguardo nella società del Settecento, per noi è un diletto entrare in casa di monsieur Rigadon, e mescolarci agli alunni e specialmente alle alunne, e udire la sorella del maestro, la madre della ballerina, il conte protettore, e assistere ai contratti con l’impresario e col sensale, e sorridere agli amorucci che d’ogni lato s’incrociano. In questa casa si preparano alle future imprese quelle terribili seduttrici che dalle classi miserabili della società salgono a invadere sempre più i teatri nel secolo decimottavo, con gelosa invidia delle attrici comiche e delle virtuose di canto, portando in trionfo di città in città la bellezza del loro corpo e la loro corruzione. Il Goldoni, ben si capisce, tace tante cose, ma molte si indovinano. Non è la prima volta che ci presenta una ballerina. Già nell’Uomo di mondo (vol. I della presente ed.) insegnava Momolo a Smeraldina lavandaia il segreto di fare fortuna col ballo (a. I. sc. 16) e le spiegava cosa fosse il padedù (II, 12: v. i precetti di Rigadon nella Sc. di ballo V, 4). Molti anni più tardi, nella Figlia obbediente, ci viene innanzi, preceduta dalla comica e ignobile figura del padre Brighella, la famosa Olivetta (v. Nota storica di E. Maddalena, vol. VIII, p. 511). Anche il Chiari ci descrive nel t. II delte Lettere scelte (Ven., Pasinelli, 1750, pp. 93-95) il miserabile tugurio di una «giovine ballerina» trasformato «venti giorni appresso» in un palazzo ricco di stucchi di specchi di cristalli, popolato da staffieri da sarti da calzolai. Nel 1754 ci regalò un intero romanzo dal titolo La ballerina onorata, dove più fedele della stessa protagonista alla verità, se non alle leggi dell’onore, attrae l’attenzione madamigella Cilene. Nel precedente romanzo della Filosofessa italiana, e in altri posteriori (la Cantatrice per disgrazia, la Commediante in fortuna) troviamo accenni frequenti alla fortuna sfacciata della danza. «Ballerina son stata, e pur son putta. - Immagini chi può, quanto son brutta» lesse l’abate dietro un ritratto. E ancora nel 1770 nelle Commedie da camera (Ven., Battifoco, I, dial. 8), e ancora nel 1780 nei Trattenimenti dello spirito umano (Brescia, Berlendis, t. IV, 109 sgg.) continuò a lamentarsi senilmente e a protestare invano contro l’invadenza dei pantomimi. «Tutto è salti adesso, e salti mortali da fracassarsi le gambe».
Goldoni pure aveva da sfogar qualche lagno nella Scuola di ballo, e ne colse occasione a privata vendetta. «Io so quel che spiace a V. E. nella Sc. di b.» diceva al Vendrarain nella lettera 4 sett. ’59. «Io non l’ho scritto per spiacere a lei, ma a chi ha detto le stesse parole in pubblica Piazza. Mi dia la soddisfazione che l’impudente le legga, e poi son pronto a levarle. Ho rimarcato l’epoca del 1758» (1. c, 144). È probabile che il buon commediografo alludesse, come sospetta il Mantovani, a qualche maligno attore del teatro di S. Luca, ma il passo con la data del 1758 più non si trova nel testo a stampa. Resta tuttavia l’eco delle solite mormorazioni dei comici dell’arte contro la commedia scritta: «Reciterò, ma solo all’improvviso, - Dove il merito spicca, e la virtù»; mentre il Goldoni per bocca di Fabrizio ribatte: «Aiutan molto le opere studiate; - Ma il mal si è che costano danari» (a. III, sc. I), certamente ricordandosi degli artisti di S. Luca, i quali non volevano partecipare al pagamento della Donna forte proibita dal Magistrato alla bestemmia (l. c, 78 e 81).
Tristo figuro è il maestro Rigadon (v. C. Dejob, Les femmes dans la comédie etc. Paris, 1899, pp. 228-9), un ex-parrucchiere (a. I, sc. 4) che pretende di amoreggiare con tutte le alunne e da esse a ragione è ingannato; che vende le povere vittime (II, 2); che mentre acconsente a istruirle e a far loro le spese, le rende poi schiave, impegnando per sè nell’avvenire, con crudele usura, i loro guadagni sul teatro («Dunque la figlia mia può far contratto - Finchè vive ballar per il maestro - Senz’alcuna speranza di riscatto» I, 3); che cerca di frodare l’impresario (II, 2); che vuol mangiare la dote alla sorella (V, 2); che lucra sul protettore della fanciulla alla cui mano egli stesso aspira (I, 4 e II, 5). Ma gli scolari non sono molto migliori del maestro: svogliati (I, 1), inetti e falsi. La sorella è una folle, piena d’albagia, il sensale Ridolfo un imbroglione.
Svolgesi la commedia in una serie di scenette senza vita, di ritratti sbiaditi. A stento ci sorridono in questa mala società gli amori giovinetti di Filippino e Rosalba, di Carlino e Rosina. Il personaggio artisticamente più vivo è forse Lucrezia, che conduce al maestro la propria figlia da istruire («Per mantener la figlia mia onorata, - E fuor d’ogni pericolo del mondo, - Sul teatro ballar l’ho consigliata» I, 2: è dolorosa ironia) e ne vanta i rari pregi («Larga di spalle, e stretta di cintura»; «Fa gl’inchini, se vuol, ancor più bassi» 1, 3: è l’infamia). E le scene più comiche sono forse le due ultime, quando tutti si sposano davanti al notaro, e abbandonano l’un dopo l’altro monsieur Rigadon, che resta solo col suo violino. Ma come si vede, la Scuola di ballo non riesce inutile a chi vi cerca il pettegolezzo dei teatri nel Settecento: ascoltate quel che dice Ridolfo degli impresari (1, I), ascoltate i lamenti di madama Sciormand (11, 3), ascoltate a che giunga in Italia e fuori il furore per il ballo (III, 2 e fine sc. 1, a. V), ascoltate lo stesso Conte che cosa dica della commedia riformata del Goldoni, alla quale il pubblico veneziano, primo Carlo Gozzi, pareva preferire di nuovo le arguzie improvvise del Sacchi tornato dal Portogallo (II, 3).
Peccato che l’autore non riuscisse a fondere la materia in un’opera d’arte salda e brillante. Colpa anche della versificazione e del metro, che lo fecero scivolare nella pratica facilona del dramma giocoso per musica. Meglio ritentò più tardi la prova, in prosa, nell’Impresario delle Smirne. Quanto alla lingua poi, e allo stile, un giudizio benevolo, quale non si aspettava il Goldoni nel 1761, pronunciò di recente Isidoro Del Lungo in un suo applaudito discorso (Lingua e dialetto nelle commedie del G.); ed è giusto che si riferisca per intero, ponendosi qui fine alla presente Nota. — Dopo di aver lodato, forse più giustamente, la Pupilla, che «non scomparisce troppo dinanzi alle fiorentine cinquecentistiche», così seguita l’illustre scrittore: «E a un’altra. La scuola di ballo, - dove i martelliani sono mutati, questa volta, in altro metro, bensì rimato, anzi di più difficil rimatura e congegno, la terzina, non ignota essa pure alla commedia toscana del Cinquecento - a cotest’altra goldoniana, la mutazione mi sembra conferire sincerità di lingua e una certa leggiadria di stile. Dirò di più, che se, leggendo quelle terzine, si ripensa la prosa del Goldoni, vien fatto altresì di pensare al fenomeno non infrequente in tutte le età della nostra letteratura, dall’Ariosto al Monti e più oltre, che le virtù di lingua e di stile d’uno scrittore, e dico de’ maggiorenti, facciano miglior prova nella poesia che nella prosa; o diciam pure, che ad esse virtù la prosa offra difficoltà maggiori che non la poesia. Fenomeno inerente a un fatto etnico dell’idioma: che il linguaggio poetico, linguaggio della fantasia, nella nostra lingua più assai che in altre rilevato, accomunò l’Italia più agevolmente e più sollecitamente, che non il linguaggio di quella vita reale la quale fu, per tante cagioni e vicende, dissomigliante da regione a regione e discorde» (estr. dagli Atti della R. Accad. della Crusca, Firenze, 1912, pp. 28-29; e Patria italiana, Bologna, Zanichelli, 1912, IL 329-330).
G. O.
La Scuola di ballo fu stampata la prima volta nel 1792 a Venezia, nel t. III, classe 3.a, dell'ed. Zatta, ma con molte scorrezioni. Fu impressa di nuovo a Lucca, l’anno stesso, nel t. XXX dell’ed. Bonsignori e l’anno dopo a Livorno, nel t. XXIX dell’ed. Masi: poi più volte nell’Ottocento. - La presente ristampa seguì il testo dell’ed. Zatta: furono corretti alcuni errori, dov’era lecito.