La scienza nuova seconda/Brani soppressi o mutati/Libro secondo/Sezione settima
Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - Sezione sesta | Libro secondo - Sezione nona | ► |
SEZIONE SETTIMA
CAPITOLO PRIMO
1289[689]..... que’che ne’corpi sembra» esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Imperciocché descartes Renato Delle Carte, che comincia la sua Fisica dal conato de’ corpi, egli veramente l’incomincia da poeta, che dá a’ corpi, che son agenti necessari in natura, ciò ch’è della mente libera: di contener il moto per o quetarlo o dargli altra direzione. Da tal conato usci la luce civile.
1290[691*] Ci giovi però da tutto il ragionato raccogliere ch’è senso comune del gener umano, ch’ove non intendono gli uomini le cagioni delle cose, dicono cosí aver ordinato Iddio. Dalla qual metafisica volgare, di cui proponemmo una degnitá, cominciò la sapienza volgare de’ poeti teologi, e nella quale termina la sapienza riposta de’ migliori filosofi, e ’n conseguenza nella quale s’accorda tutta la sapienza criata di ragionar la fisica per principi di metafisica, che o vi scendino a dirittura, come fecero Platone prima e poi Aristotile, o vi dechinino per le mattematiche, come Pittagora fece co’ numeri e Zenone co’ punti, [CMA3] come sta da noi dimostrato nel primo libro De antiquissima italorum sapientia.
1291Ma, perché la meditazione de’ principi fisici, i quali sono materia e forma, innalza la mente alla contemplazione dell’autore [della natara] dalle locuzioni latine, come di una lingua piú eroica di quello che ci pervenne la greca volgare, per una degnitá sopra posta, della quale dappertutto qui facciam uso, avremo piú certi vestigi di ciò che n’oppinarono i poeti teologi. I latini dissero «numen» la divina volontá da «nuere», «cennare», ond’è «nutus» «cenno», che dovette certamente cosí appellarsi da Giove, appreso ne’ tempi mutoli, che parlasse co’ cenni de’ fulmini e de’ voli dell’aquile; e si credettero l’autore della natura essere provvedente. Con tal teologia convengono le voci «casus», «fortuna», «fatum». Perché «casus» è, latinamente, l’uscita che fanno le cose, onde «casus» poi si dissero l’uscite o terminazioni che fanno le parole: talché le cose nel loro incominciare e progredire devono esser condotte da essa provvidenza. «Fortuna» è detta da «fortus», che agli antichi significò «buono», onde dovettero stimare «buona» anco l’avversa fortuna, e per ciò: che anco nell’avversa la provvedeva voglia il bene degli uomini, e quindi gli uomini anco nell’avversa debbano benedire gli dèi; onde poi, per distinguerla dalla rea, la buona fortuna dissero «fors fortuna». «Fatum» è da «far faris», che significa «parlar certo e innalterabile», com’era il parlare delle formole romane; onde i giorni ne’ quali il pretore rendeva ragione, la qual concepiva con sí fatte formole, si dissero «dies fasti». Appunto come la formola della condennagione d’Orazio narra Livio che doveva lo re eseguire anco se ’l reo si fusse ritruovato innocente; nella stessa guisa che Giove dice a Teti, appo Omero, che esso non può far nulla contro a ciò ch’una volta avevano gli dèi determinato nel Consiglio celeste (forse anco da Grecia si portò a Roma cotal ordine di giudizi?), onde gli stoici vogliono Giove soggetto al fato. Ma i latini ed essi greci, quando intendevano Iddio che regge e governa tutto, dissero «gli dèi»: talché questo è ’l «fas deorum», dal quale cominciò il «fas gentium», le quali dapprima, come appieno dimostriamo in questi libri, osservavano scrupolosamente le formole delle leggi e de’ patti. Perché era stata pur volontá di Giove di convocare il Consiglio celeste, ed era stata pur volontá degli dèi di cosí (come potevano altramenti?) decretare. Ond’Omero intese il Fato essere la determinata volontá degli dèi, la quale, perocché sia col decreto determinata, non cessa pertanto d’essere volontá.
1292Dalle quali ed altre interminabili origini della lingua latina abbiamo in quest’opera tratto l’antichissima sapienza, non giá riposta dell’Italia, ma volgare di tutto il mondo delle nazioni; perché, essendoci accorti quella metafisica, la quale ne faceva il primo libro, esser una spezie di quella che poi qui chiamiamo «boria de’ dotti», alzammo la mente di meditare la fisica e la morale, ed applicammo a meditare ne’ Principi del Diritto universale, che è stato un abbozzo di questa Scienza.
CAPITOLO SECONDO
1293[693] L’uomo, per quanto è da’ fisici contemplato, egli è un ammasso di corpo e d’anima ragionevole; dalle quali due parti cospira in lui un principio indivisibile d’essere, sussistere, muoversi, sentire, ricordarsi, immaginare, intendere, volere, meravigliarsi, dubitare, conoscere, giudicare, discorrere e favellare. Certamente gli eroi latini sentirono l’essere..... purissimo, che da niun esser è circoscritto. [CMA4] Quinci venne a’ latini la voce «ens» per significar astrattivamente «cosa che è»: venne sí tardi che si ha per scolastica, non per volgare latina; e lo stesso truoverassi de’ greci nel medesimo senso la vece ὤν. E quindi si tragge un grave argomento per la veritá della cristiana religione, ch’ella ha altri principi incomparabilmente piú sublimi di quelli delle gentilesche: che questa voce, la qual venne sí tardi tra gli piú dotti gentili e non si usò che da’ filosofi, ella è antichissima volgare agli ebrei, per quel luogo di Mosè, il quale nel Sina domanda a Dio chi deve dir al popolo di averlo con la Legge mandato, e Iddio gli risponde «Qui est misit te»; e, domandandogli Mosè di nuovo chi esso si fusse, egli si descrive: «Sum qui sum» [CMA3*] (nel qual luogo Dionigi Longino ammira tutta la sublimitá dell’espressione, convenevole alla somma altezza del subietto), [CMA4] appunto come Platone, quando assolutamente dice ὤν, intende Iddio. [CMA3*] Lo che qui detto si può aggiugnere a ciò che se n’è sopra ragionato nella Metafisica poetica. [SN2] Sentirono la sostanza ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste: onde Achille portava i suoi fati sotto il tallone, com’a’ tempi barbari ricorsi i paladini portavano i talloni fatati, perché ivi stasse il lor fato, o sia la sorte del vivere e del morire.
1294[694] ..... come restò a’ latini «succiplenum» per «corpo carnuto insuppato di buon sangue», dal quale viene il vero buon colore, che fa il compimento della bellezza: onde, se non si è sano, non si può esser di vero bello.
1295[695]..... E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, perch’i fisici vogliono l’aria bisognar a’pulmoni per rinfrescar le fiamme del cuore, ch’è l’ufficina del sangue, e col suo moto il ripartisce per le arterie nelle vene, onde se n’irrighi tutto il corpo animato.
1296[696]..... ch’è l’«igneus ligor» che testé ci ha detto Virgilio. [CMA3] Il quale, siccome colui ch’era stoico di setta, sembra aver voluto dire poeticamente ciò che que’ filosofi dicevano «senso etereo», ch’i peripatetici appellarono «intelletto agente», i platonici chiamarono «genio», [SN2] e i poeti teologi il sentivano e non intendevano. Il qual principio poi da’ latini fu detto «mens animi» (onde nacque quella volgar teologia che gli uomini avessero quella mente che Giove avesse lor dato); e sí, rozzamente, intesero quell’altissima veritá metafisica: Dio essere il primo principio della vita spirituale dell’uomo o sia del movimento degli animi, il quale non venga da impressione di corpo.
1297[697] Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se piú propia n’abbiano potuto appresso ritruovar i dotti per ispiegare la sostanzialitá delle forme im metafisica, e ’nsiememente in fisica l’organizzazione di essi corpi formati. Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione. [CMA3*] La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere».Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione (ch’ora si dee supplire con la platonica circompulsione dell’aria, ch’essi poeti teologi non poterono intendere) di prendere d’ogn’intorno i corpi loro vicini.
1298[699]..... E come naturalmente prima è ’l ritruovare, poi il giudicar delle cose [CMA4] (lo che appieno si è da noi ragionato in una replica ai signori giornalisti d’Italia d’intorno al primo libro De antiquissima italorum sapientia), cosí conveniva alla fanciullezza del mondo.
1299[701] ..... cioè l’irascibile nello stomaco, onde i greci dicevano lo «stomaco» per l’«ira», perocché, spremendovisi i vasi biliari, che vi son nati per la concozione de’ cibi, e diffondendovisi la con concupiscibile, piú di tutt’altro, nel fegato.....
1300[702]..... quantunque spesso falsi nella materia. [CMA4] Ed essa voce «sentenza» ci conferma ch’i pareri uscivano dettati dal cuore: ond’è quella formola latina «ex animi tui sententia».
CAPITOLO QUARTO
1301[705] [CMA3] Ma ora, perché le nienti delle nazioni si son assottigliate col saper volgarmente di lettere, impicciolite col sapere di conto e ragione, e finalmente fatte astrattive con tanti vocaboli astratti, de’ quali oggi abbondano le lingue volgari, per le quali cagioni tutte oggi si pensa con animi riposati; e perché nel capo sono gli organi di due sensi, de’ quali [uno] è ’l piú disciplinabile, come il diffinisce Aristotile, ch’è l’udito, l’altro il piú acre, qual è quello della vista: perciò immaginiamo che l’anima nostra pensi nel capo. Talché, se questi due organi de’ sensi fusserci dalla natura stati posti ne’ talloni, diremmo certamente che noi pensiamo ne’ piedi. Perché la posizione della glandola pineale, posta in cima del celabro, ove l’animo tenga il suo seggio, se non fusse di Renato Delle Carte, direi ch’è d’uomo che non s’intende affatto di metafisica. Però non altronde egli si può intendere con maggior maraviglia quanto i primi uomini, perché erano nulla o pochissima reflessione, essi valsero col vigore de’ sensi sopra ogni piú affinata riflessione; non altronde diciamo che con maggior maraviglia si possa intendere che da’ nomi ch’i latini diedero ad essi sensi e meglio che i greci gli conservarono. Che insiememente saranno due grandi ripruove; una dell’oppenion di Platone, che si parlò una volta una lingua naturale nel mondo; l’altra del vero che ha sostenuto per tanti secoli la volgar tradizione, che gli autori delle lingue fussero stati sappienti, però d’una sapienza de’ sensi.
1302[706] [CMA3] De’quali dissero «auditus», quasi «hauritus», quel dell’udito ed «aures» l’orecchie da «haurire», perocché l’udito si faccia da ciò, che gli orecchi tirano l’aria ch’è da altri corpi percossa, onde s’ingenera il suono. Dissero «cernere oculis» lo scernere o veder distinto, ch’è per latina eleganza diverso da «videre,» ch’è un vedere confuso, perché dovettero sentire gli occhi essere come un vaglio..... Ond’è la ragione che la fiera che fugge, finch’è veduta dal padrone, non ricupera la naturai libertá. L’odorare dissero «olfacere» ch’è propiamente far odore; e ’l dar odore, al contrario, dissero «olere»: che forse indi presero da sé, estimando l’api, ch’immaginavano con l’odorare facessero il mèle (perocché non potevan intendere che ne succiassero i sughi), cosí essi coll’odorare facessero gli odori. Lo che poi, con gravi osservazioni..... perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con sappiente trasporto stesero all’animo e ne dissero la «sapienza», ch’allor l’uomo sappia ovvero dia sapor di uomo, quando pensa, parla, opera le cose con propietá.
1303Talché è necessario che conoscessero per sensi quella gran fisica veritá, ch’or appena s’intende da’ migliori filosofi: che l’uomo faccia i colori, suoni, odori, sapori e tutt’altre sensibili qualitá con essi sensi del corpo; faccia le reminiscenze con la memoria, le immagini con la fantasia (perocché l’ingegno certamente non si esercita se non truova o fa nuove cose); e che molto meglio che i greci, i quali richiamavano al genere il qual dissero δύναμις (la qual con piú voci i latini voltarono «vis et potestas», onde gl’italiani chiamano «potenze dell’anima» che usano le scuole), molto meglio, diciamo, i latini avevano per significarlo una sola voce natia, «facultas», dagli antichi detta «faculitas», e poi ingentilita e chiamata «facilitas», senza la quale facilitá di fare non si dice esser acquistata una facultá. Che doveva esser il principio della sua Logica ovvero Metafisica dell’inghilese barone Erberto, con la quale vuol provare che ad ogni nuova sensazione si desti nell’anima una nuova facultá; ch’è appunto quello che ne sembrava esser una goffa semplicitá de’ primi uomini, ch’ad ogni nuova aria di volto credevano vedere una nuova faccia, ad ogni nuova passione o pensiero credevano aver altro cuore (che truovammo esser il vero della favola di Proteo): e ’n conseguenza il parlar vero di quelle frasi poetiche «ora», «animi»,«pectora», «vultus», usati per lo numero del meno da essi poeti, che oggi sembrerebbono fatte per ispiegare nell’accademie quella gran fisica veritá, che s’intese poi dagli piú avveduti filosofi: ch’in ogni momento appresso, tutte le cose in natura sono altre da quelle che sono state nel momento innanzi.
1304[707] [CMA3] E deve essere stato cosí dalla divina provvedenza ordinato ch’avendo ella dato agli animali i sensi per la custodia de’ lor individui, in tempo ch’erano gli uomini caduti in uno stato bestiale, da essa stessa bestialitá avessero sensi scortissimi e, come gli animali bruti, sentissero anco le virtú dell’erbe che sanassero i loro malori. Siccome viaggiatori raccontano d’una generazion d’uomini in sommo grado selvaggi dell’Affrica, che sanno a maraviglia le virtú dell’erbe. I quali sensi scortissimi, venendo l’etá del senno con cui gli uomini potessero consigliarsi, si disperderono. Che tutto è pruova di ciò che ne’ Princípi dicemmo: che ora appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi autori del gener umano gentilesco.