La scapigliatura e il 6 febbrajo/VII

VII. Pandemonio

../VI ../VIII IncludiIntestazione 23 febbraio 2009 75% romanzi

VI VIII


[p. 123 modifica]

CAPITOLO SETTIMO.

Pandemonio.

Tredici persone — sette giovani e sei ragazze — stanno sedute a tavola in una sala superiore dell’albergo del Rebecchino, facendo ciò che in questa valle di lagrime si usa far dai mortali seduti a cena.

Le mie sentimentali lettrici mi faranno forse un rimprovero d’essere uscito da un pranzo per entrar in una cena.

Io non ripeterò per iscusarmi il triviale proverbio: che a tavola non s’invecchia. Farò loro osservare soltanto che, come nel pranzo non parlai nè di piatti nè di portate, così della cena non narrerò che il dialogo.

Si era già a quel punto in cui nessuno più ascolta e tutti parlano in una volta, incrocicchiando in mille guise i discorsi, sfiorando gli argomenti a centinaia, or qua, or là, sviati e interrotti dai brindisi, dalle risa, e dalle grida. [p. 124 modifica]

Teodoro, incaricato da Emilio, aveva fatto le cose degnamente, anzi splendidamente. Lo sciampagna — fabbricato chi sa dove — si versava — non dirò proprio a torrenti — ma a ruscelletti, e l’orgia delle parole aveva invaso la sala.


— ... Il duello? Bella novità! Chi non lo sa che è un famoso assurdo? Quante volte non fu detto e non fu scritto che... Sì, bravo, dammi ancora un po’ di quel gelato... che bisognava pensare ad abolirlo?... Ma provati un po’ tu a rifiutarti di batterti con me, se mi venisse il grillo di gettarti in viso questo bicchiere?


— ... Lo si lascia, o lo si sposa, se è possibile. La miglior maniera di lasciare un amante è quella di sposarlo. Sei del mio parere, Teresa?


— ... Solenne ingiustizia! Abbasso la critica! Io chiedo si abolisca la critica. Sono tutti canaglia. Non capiscono nulla; non sanno far distinzione. Loro li chiamano drammi da Stadera, li chiamano... e credono d’aver detto tutto. Asini! Imbecilli! Come se la Stadera non volesse dei drammi fatti apposta per la Stadera... Sicuro! E io li faccio! E me ne vanto!


— ... Ah il mio povero vestito tortorella!!! — s’udì una voce sottile soverchiar tutte le altre...

— Niente, niente; lo sciampagna non lascia macchia... È così puro! [p. 125 modifica]

— ... Perchè la società è composta di due classi: quelli che hanno più pranzo che appetito... e quelli che hanno più appetito che pranzo... è chiaro come il sole.

— Mirabeau ha detto che ci sono tre maniere di vivere in società: o come mendicante, o come ladro, o come salariato.

— Mirabeau è un asino! — gridò Teresa — Io non sono nè l’uno, nè l’altro, nè l’altro.

— Chi è questo signor Mirabeau? — s’udì un’altra voce di donna — Lo conosco io? E un bel giovane?


— ... Che cattolicismo, che cattolicismo! Noi muoviamo a gran passi verso la religione dell’amore universale...

— Ecco bravo! È quello che ho sempre detto anch’io; l’amore universale!

— Tu Gigia taci; di queste cose non ne sai nulla.


— ... Ma ti dico che non è un sogno. Fra cinque anni al più tardi io posso essere milionario. Si tratta della più grande scoperta del secolo... Passami quel piatto di confetti per la Pina... Grazie... Capisci? Posso essere milionario! Si tratta nientemeno che del moto perpetuo!!!


— ... E così fu!... per uomini della mia tempra esser padrone del suo a ventidue anni, vuol dire che a trenta non si avrà più un centesimo. L’altro [p. 126 modifica]ieri perdei al giuoco i miei ultimi... i miei estremi dodici marenghi...

— Ti resta la contea. Bella cosa a esser conte. Io se fossi conte non saluterei più nessuno in istrada.

— Che conti, che duchi?... A Milano... tutti uguali. Dove trovate un’altra città in cui tutti i conti vanno al corso a braccetto d’un plebeo? Dove, quando ti abbia lavato le mani, puoi essere presentato dappertutto...?


— ... È una stupidità... cosa importa alla natura che una sposa sia fedele al marito? In natura non ci sono spose... ci sono donne...


— ... La fisiologia del disordine? Subito fatta! Che cos’è l’ordine? L’ordine è tutto ciò che emana da un’autorità... Che cos’è l’autorità?... L’autorità è quella brutta...

— Teodoro sta in gambe... pensa che non siamo a Lugano...

— È vero! Bene dunque se l’autorità è... ciò che ho detto, l’ordine che dipende da essa non può essere che una cosa esecranda... ergo il disordine una cosa eccellente... quod erat demonstrandum.


— Io dico di no... io dico che il Mi manca la voce, Mi sento morire è assai più bello... Dammi da bere... Dove trovare un pezzo di melodia superiore a questo nel mondo musicale?... Hai un bel cercare in Verdi... Verdi è un idiota!!!... [p. 127 modifica]

Così l’orgia del discorrere cresceva, cresceva, col crescere dei fumi del vino che rendeva già tutti brilli quei tredici scapigliati. V’era nei loro discorsi, nei gesti, negli occhi un crepuscolo di ubbriachezza. E l’orgoglio, il proverbiale orgoglio dei giovani della loro tempra, levava fiera la testa sulle altre passioni.

Udite:

— Chi nominò la compagnia brusca? — gridava Niso — Nessuno conosce la nostra potenza.

— E la vostra bolletta; — sclamò la Teresa.

— La bolletta non è che un effetto naturale della potenza. Tanto è vero che tutte le potenze sono in bolletta.

— Questo è un paradosso.

— No, no, ascoltatemi...

— Zitto, silenzio... abbasso là... ascoltiamo papà Niso che parla.

— Sapete voi, — disse Niso — sapete voi perchè gli imbecilli hanno sempre a questo mondo maggiori vantaggi che gli uomini di talento come noi?

— E crepi la modestia! — gridò la Teresa.

— Sapete voi perchè un asino che fallisce trova mille che gli prestano denaro, mentre un nostro pari che muore di appetito non trova un cane che gli paghi da pranzo?

— Io comincerei a non accettarlo; — notò Emilio.

— Perchè proteggendo un asino quei mille si sentono superiori, mentre pagando da pranzo ad un uomo di talento non si sentirebbero neppur uguali.

— Ma noi rovesceremo il mondo, — gridò Gustavo — e muteremo la società dal sotto in su. [p. 128 modifica]

— Questo è da farsi. E noi donne farci tutte uguali agli uomini.

— Signori; — gridò Teodoro — la Teresa ha delle idee di emancipazione; propongo di metterle a protocollo per trattarle nella prossima seduta della società.


— ... E quanto t’è poi costato quel cappone? — chiese la Gigia alla amante di Teodoro ripigliando un discorso interrotto e parlando a bassa voce dietro la scranna del giovane che stava loro in mezzo.

— Quindici lire; — rispose Teresa.

— Che ladra!

— Ma tu sai bene che è proibito ribattere un centesimo del prezzo, altrimenti il sortilegio non riesce.

— Perchè?

— Perchè non so; ma se si tenta soltanto di dar alla pollaiuola un centesimo meno del cappon nero, il filtro non riesce a far innamorare nessuno.

— Ebbene, e poi?

— E poi ho comperato una dozzina di carte da spilli per mettere in fusione col cuore del cappon nero nello spirito di vino e canfora... e il resto che sai...

— Va bene e poi?

— Vi aggiunsi anche una ciocca dei suoi capelli che gli ho recisa una notte mentre dormiva dalla parte del cuore.

— È indispensabile? — chiese la Gigia. [p. 129 modifica]

— Sicuro.

— Ma gli è che Emilio credo che non dorma mai dalla parte del cuore.

— È segno che ne ha un’altra; — disse Teresa.

— Lo so... una donna maritata... ma penserò ben io a sbrigargliela d’attorno.


— ... E così — disse Teodoro — potremmo ottenere l’emancipazione della donna richiesta or ora da Teresa...


— ... E s’è accoppato? — chiese Niso a Gustavo levandosi da mensa.

— Pur troppo!

— Che cosa aveva?

— Che cos’avesse non so; ma una sera pensò bene di gettarsi dalla finestra del terzo piano e di sfracellarsi la testa sul lastrico della via...

— Chi era?

— Temistocle... un certo Temistocle — rispose Gustavo — un giovine che sarebbe stato degno di far l’ottavo... fra cotanto senno.

E mostrò a Niso i compagni ch’erano tutti ubbriachi.

— Ebbene raccontami la storia di Temistocle. S’egli s’è gettato dalla finestra è degno di essere rammentato negli annali della scapigliatura.


Si sedettero su un sofà e in mezzo al frastuono che li circondava Gustavo cominciò: [p. 130 modifica]

— Quand’io lo conobbi la prima volta, correva rigido il gennaio del mille ottocento quarantasette; ei se ne stava sdraiato, avvolto nel suo plaid a scaccato bianco e nero, e leggeva la Bibbia del Diodati... Mi par ancora di vederlo!

Abitava in Santa Radegonda una stanza, dove regnava un freddo moscovita; e un Reaumur, che pendeva da un chiodino infisso nella intelaiatura dei cristalli, mi fece l’effetto come di un’ironia: segnava un grado sotto lo zero.

Eppure nella stanza c’era il caminetto, e la cassa era piena di legna; ma Temistocle lo aveva acceso quando il freddo era sopportabile, poi si era dimenticato anche di aver freddo, e alla lettera si gelava.

Nel suo genere quella stanza era un vero modello. Tu Niso che ti sei messo ad avere qualche cosa a suo posto, non puoi credere come fosse quella stanza. La gretta mobiglia e gli sgraziati addobbi del riaffittatore sparivano, per così dire, nello spaventevole disordine delle robe di Temistocle; non un filo a suo luogo; si avrebbe anzi detto che in un eccesso di furore ei le avesse sbalestrate pei quattro angoli; tra le altre cose un solino da collo, caduto in bilico sul capo d’una statuetta di Masaniello che chiama il popolo alla riscossa, mi fe’ sorridere entrando.

Io era andato da lui per affari di caricature. Allora stavo per fondare un giornale umoristico: stemmo un paio d’ore a colloquio, poi uscimmo insieme a far colezione. [p. 131 modifica]

Da quel giorno fummo più amici che se ci fossimo conosciuti da dieci anni. Come quando ci trovammo noi due.

Temistocle era bello, come può essere bello un giovine tarchiato di cinque piedi e dieci pollici in mezzo alla generazione del giorno d’oggi. Il suo portamento, la foggia del vestire e l’aria un po’ desolata del viso fermavano la gente in istrada; la sua barba a ventaglio arieggiava quella posticcia di un gran sacerdote da palcoscenico.

Egli aveva studiato di medicina; ma dagli ultimi esami in poi non gli era mai più passato per il capo che ci fossero al mondo malati e mezzi da mandarli più presto al cimitero. Era nato artista, e artista divenne. Forse, qualora suo padre l’avesse voluto artista, ei si sarebbe gettato con fervore alla medicina; giacchè in queste nature predestinate alla sventura e al suicidio la contraddizione è inevitabile... sai bene?

Temistocle, un bel giorno dunque, s’era messo a schizzar delle figure, e, quand’ebbe gettato sulla carta quei primi abbozzi, scoprì di possedere il tratto felice e il così detto chic dell’artista contemporaneo. Nella inesperienza della matita, sotto le crudezze di quelle linee da dilettante, c’era un non so che di così ben trovato e un’audacia di genio... portentosa.

Allora egli fece l’entrata nel mondo artistico a colpi di litografia, e passò le sue ore a tormentare la mano sulla pietra, e la fantasia nelle scene dolorose della vita di miseria. [p. 132 modifica]

La sua camera divenne convegno di tre o quattro amici, nati artisti come lui, per grazia di Dio, fra i quali anch’io.

Quella fu la mia prima compagnia brusca. Allora ero giovine, e tutto mi faceva impressione. Gli altri, tutti più vecchi di me, mi davano soggezione; essi pensavano tutti come una persona sola, e si parlavano un mistico linguaggio pieno di reminiscenze, di poesia e di frizzi, e si rispondevano in rime colte al volo con accompagnamento di franchi scoppi di risa, dei quali nessuno, tranne essi, avrebbe capita la ragione; e talvolta un’idea nostra ispirava il disegno a Temistocle e il disegno di Temistocle infiammava la musa dell’amico, che alla sua volta faceva fremere la matita nella destra del povero giovine.

Era prima del quarantotto. Allora si era più allegri...

In quelle ore di feconda follia spesso i turaccioli dello spumante francese volavano alla soffitta, col lieto scoppio che fa stendere i calici a chi mesce. Temistocle fra i vini non amava che lo sciampagna, l’ispiratore della cortese allegria, diceva lui, e alla peggio l’autore della nobile ubbriachezza; ma non isdegnava il punch per la sua fiamma turchina, e quando si dava fuoco alla miscela, nel vapore opalino che si svolgeva in leggerissimi globi dall’ardente bole ei vedeva una sfilata fantastica intrecciare le sue danze infernali dinanzi a’ suoi occhi, che gli ispirava i bizzarri soggetti de’ suoi disegni. [p. 133 modifica]

Molti di essi diventarono poi soggetti dei miei drammi... che non ho ancora fatto rappresentare... e che faranno furore...

Temistocle aveva sopratutto l’umor nero, che gli tormentava l’esistenza e gli schiantava l’energia del fare, nella disperata conclusione dell’: a che scopo? Allora le sue lugubri pensate parevano pronostici della sua fine miseranda; litografie desolanti, vere immagini di quell’anima desolata.

Qua una povera fanciulla scalza, morente di fame e di freddo, che invoca un tozzo di pane per l’amor di Dio, da un banchiere che corre alla Borsa e la ributta con una ignobile parola, perchè col capo nell’Augusta non si accorge neppure che la povera creatura è bella, e che la elemosina gli potrebbe fruttare... il prezzo dell’infamia.

Là una bara che esce a mattino dalla portaccia di un povero morto di miseria e di stenti, la quale s’incontra in due domini coperti di trine e di diamanti che mettono il piede calzato di raso sul predellino di una carrozza dorata e vanno a riposare dal veglione della notte.

Scene di miseria, che non si danno o ben di rado a Milano, ma che pure facevano pensare e fremere.

Eppure anch’egli era, come Emilio, uno dei più grandi affettatori di cinismo e di insensibilità ch’io mi abbia mai conosciuto. Povero entusiasta pieno di cuore!

In campagna, per esempio, gli si potevano sorprendere delle ingenuità, dei moti di gioia, delle con[p. 134 modifica]templazioni degne di un fanciullo di dieci anni; era capace di star dei quarti d’ora a rimirare un pollo d’India far la ruota, o due galli azzuffarsi sulla concimaia, chissà che pensieri volgendo in capo, e sorrideva come chi non ha in cuore che delle speranze.

Fu a Venezia, e ne andava pazzo; là dopo veglia in teatro, dopo aver fatto il diavolo a quattro in maschera, quasi morto di stanchezza e di sonno, pur non rientrava in casa se non dopo aver camminato qualche ora su e giù per le calli ad ammirare la superba città dei Dogi sepolta nella quiete delle ultime ore di notte.

Tutto in lui era contraddizione. Tutto in lui riusciva a formare il tipo del giovine condannato alla pena di Tantalo del secolo decimonono.

Povera natura ardente! Il suolo della sua terra non ebbe per lui abbastanza emozioni. Egli era nato per vivere nel cratere di un vulcano.


Una sera sono al veglione; mi si avvicina un conoscente e mi dice:

— Buona sera, Gustavo... Anche tu al veglione? Che miracolo...! Hai sentito di quel povero diavolo che poco fa s’è gettato dalla finestra?

— No... dove? — chiesi io con una stretta al cuore.

— In contrada di Santa Radegonda.

— Oh Dio! Sarebbe mai Temistocle!

E piantando sui due piedi quel nuncio di mal[p. 135 modifica]augurio mi precipitai fuori di teatro e via come un energumeno pel Marino verso la casa di lui.

C’è, nella notizia di un suicidio, per quanto sconosciuto o indifferente ti sia chi si troncò la vita, c’è sempre qualche cosa di terribile e di fatale... non è vero, Niso? E tanto più fatale quanto più la notizia è secca, senza commento, e senza compianto.

Io credo che non ci sia scena di dramma — neppur d’un mio — che possa agir con tanta potenza sull’imaginazione di un uomo di cuore, come queste poche e ghiacciate parole lette forse nelle Notizie varie o nei Fatti diversi di qualche giornale:

“Oggi al tramonto una povera fanciulla di sedici anni, abbandonata dall’amante, si è asfissiata col carbone nella sua soffitta.”

A chiunque non sia un rettile privo di cuore balenerà attraverso la fantasia un poema di amore tradito, nella vita di quella povera creatura stroncata al primo aprirsi ai raggi dell’amore.

Quante notti di pianto ruggito colla faccia nascosta nei guanciali del misero lettuccio, prima che la tremenda determinazione le si sia impiantata nell’anima!

Che uragano implacabile fra l’ultima speranza e la completa disperazione!

Ma se poi lo sventurato tu lo conosci, se poche ore prima gli hai stretto la destra con un: a rivederci, pregno di simpatia reciproca e forte, se non ti sei accorto di nulla, se credi che, giovane qual [p. 136 modifica]è, sano, agiato, pieno di talento e di avvenire... egli sia felice... l’impressione che ti fa la notizia della sua disperata morte è tremenda. Dio mio, che mistero di dolore nascosto nel più profondo del cuore deve essere stato quello che lo spinse all’atto disperato!


Giunto a capo della via vidi da lontano un crocchio di gente; ma non era sotto il balcone di Temistocle; sperai e rallentai la corsa; sentivo nel cuore uno sgomento indicibile.

Arrivai al crocchio.

— Dov’è quel meschino? — chiesi a un operaio che andava sclamando: — La Provvidenza! Un giovane di quella fatta! E dicono che c’è la Provvidenza!

— Dov’è desso?

— È là in quella bottega — mi rispose.

Vi entrai, e passando quella soglia credetti di cadere per l’emozione.

Un cadavere sanguinoso e sconciato stava disteso su una tavola...

Me gli appressai, guatandolo in viso al lume incerto di una candela...

Era Temistocle!