La porta della gioia/La donna vertiginosa
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LA DONNA VERTIGINOSA
Esistono donne che sembrano avere un’unica missione nella loro vita: quella di rovinare gli uomini, ed esistono uomini che amano soltanto questo genere di donne.
Ad esso apparteneva Lady Zoia Simpson, una ricchissima americana, vedova da alcuni anni del re dei sopratacchi di gomma, venuta a passare un inverno a Roma ed una primavera sul Lago Maggiore.
Fu appunto a Stresa, nel grande albergo delle Isole Borromee che la conobbe il conte Emo Siniscalchi, un bel giovine dai capelli neri e dagli occhi verdazzurri, alto, snello, elegante, di quella eleganza mezza alla dandy e mezza alla sportsman che misero di moda i viveurs d’oltre Manica.
Egli aveva trent’anni e una rendita d’altrettante migliaia di franchi che gli bastavano esattamente per la sua vita oziosa, fiorita di quando in quando d’un bel capriccio facilmente appagato.
La sera in cui Emo Siniscalchi conobbe Lady Simpson aveva litigato con la sua piccola amica Gioconda, perchè questa era venuta a prendere il thè nell’hall dell’albergo con le calze di seta nera sulle scarpette di pelle grigia, grave stonatura che aveva molto irritato il suo finissimo senso estetico dell’abbigliamento femminile.
La vedova americana era invece il più armonioso modello che l’eleganza parigina, applicata a una linea impeccabile, potesse mandare in giro pel mondo.
Snella e morbida, coi capelli d’un bel biondo britannico e gli occhi d’un bel nero spagnuolo, vestiva un abito da sera di un’argentea lucentezza plenilunare trattenuto alle spalle da due file di perle orientali, che le denudava quasi interamente il dorso fino a scoprire un neo ch’ella aveva presso la cintura.
Ballò due one-step con Emo Siniscalchi, poi andò ad appoggiarsi al suo fianco incontro alla balaustrata che guarda il lago.
Contemplò la luna che scintillava sull’acqua tremula, aspirò ad occhi socchiusi col mento proteso il profumo delle magnolie grandiflore e compiuti questi riti preliminari delle notti di flirt o d’amore, s’attaccò al braccio del suo cavaliere rabbrividendo tutta dalle spalle al piede.
— Come sono fresche queste vostre notti italiane! Anche a Roma passata la mezzanotte si gela in tutti i mesi dell’anno. Andate a prendermi la mia cappa di velluto e fateci portare dello champagne.
Emo corse via e ritornò poco dopo col gran mantello foderato d’ermellino in cui avvolse l’agile persona restandole fermo alle spalle, cingendola tutta e indugiando in quest’atto ch’era già molto simile a un abbraccio.
In quel momento essi udirono sul loro capo un ronzìo prolungato: il globo sfolgorante della luce elettrica sospeso nell’arco della balaustrata mandò intorno un chiarore incerto e balenante, poi si spense ed essi rimasero immersi nell’ombra azzurra, appena illuminata in basso da un riflesso di luna.
Egli era rimasto immobile con le braccia protese ad avviluppare nel velluto e nell’ermellino la bella persona e quando la complice oscurità li avvolse gli fu facile, quasi istintivo, chiudere le braccia, serrarla incontro a sè e aspirare l’odore inebbriante di Houbigant e di donna giovane che mandava la sua nuca bionda.
Ella si volse appena e gli porse le labbra in silenzio. Il bacio durò finchè il ronzìo del globo sospeso sul loro capo non li avvertì discretamente che la luce stava per ritornare a compiere le sue due importanti funzioni: illuminare il buio delle notti e costringere le persone dabbene a mentire con arte e con disinvoltura.
Entrambi difatti con aria noncurante s’appoggiarono di nuovo incontro alla balaustrata che guarda il lago, sotto il globo elettrico come prima folgorante, mentre il cameriere giungeva col secchiello d’argento e con le coppe di cristallo.
— Signor conte, ecco lo champagne.
⁂
Incominciò allora per essi un’esistenza bizzarra e piacevole, quantunque un poco faticosa, fatta di lunghi viaggi per terra e per mare e di brevi soste in grandi alberghi cosmopoliti.
Lady Zoia Simpson era un’errabonda e un’agitata, ma la sua irrequietezza, a differenza di quella delle donne latine che è quasi sempre nervosa e scontenta, era piena di gaiezza e di vivacità. Non era una ricerca ansiosa di cose irreperibili e di sensazioni rare, ma un’allegra curiosità di conoscere quanto più mondo le fosse possibile.
La terra era per lei una immensa fiera variopinta, dove ad ogni baracca essa voleva fermarsi per comprare un gingillo, per fare un giro in giostra, o per contemplare da vicino il fenomeno vivente annunziato dalla grancassa.
Otto giorni dopo il bacio sulla terrazza delle Isole Borromee Lady Simpson ed Emo Siniscalchi occupavano una cabina di wagon-lits nel direttissimo di Parigi. Cinque settimane dopo erano a Londra e s’imbarcavano per le Indie.
Sostarono qualche tempo a Giaipur, la città rosea, dove Zoia aveva trovato una ballerina di Washington, amica sua, andata ad imparare le danze sacre per profanarle nei caffè-concerto di New-York.
Passarono l’estate tra i fiori norvegesi, l’autunno fra le agave di Villa lgiea a Palermo, l’inverno mezzo al Cairo e mezzo a Montecarlo.
Nell’aprile erano a Roma ed uscivano una sera dal Costanzi, dove avevano assistito al Mefistofele da un palco di prima fila, tra uno sfolgorìo magnifico di bellezza e d’eleganza. Zoia risplendeva in tutta la sua biondezza in un abito di raso nero ricamato a grandi fiori d’oro che pareva la tunica d’una antica sacerdotessa o il manto di un idolo persiano.
L’automobile chiusa li depose davanti all’Excelsior ed ella volle ancora discendere nel bar dove gli oziosi eleganti della capitale, passano le ore notturne giocando e inghiottendo squisiti veleni.
Ella bevve un vhisky, poi puntò una somma alla roulette e perdette. La raddoppiò, perdette ancora ed allora accese ridendo una sigaretta russa che le offerse un giovane principe romano. Poco dopo ella aperse il proprio porta sigarette e lo porse al suo ammiratore. In quel momento le balenò un’idea che le parve molto bizzarra e ridendo la manifestò.
— Siccome non ho più denari punterò per quello che vale il mio portasigarette d’oro.
Ma Emo Siniscalchi s’oppose e le consegnò il suo portafoglio. Dopo cinque minuti ella glie lo restituì, vuoto.
Quando salirono al loro appartamento, la cameriera di Zoia che li aspettava alzata, presentò al signor conte una lettera raccomandata giunta durante la sera. Era del suo uomo d’affari e gli chiedeva scusa se non era in grado di soddisfarlo nella sua ultima richiesta di danaro, poichè pel momento non aveva nulla in cassa. Soggiungeva che rimaneva all’attivo del signor conte null’altro che la somma di diecimila franchi, la quale poteva essergli inviata fra alcuni giorni.
— Questa è la rovina — disse a sè stesso Emo con un’ira concentrata, scaraventando incontro allo specchio dell’armadio a tre luci la gardenia già un po’ ingiailita che leggendo aveva tolto distrattamente dall’occhiello della sua marsina.
— Un anno d’amore con quella donna vertiginosa, ed eccomi ridotto all’indigenza. Non mi rimangono che due strade quasi egualmente odiose: mettermi a far debiti od ammazzarmi.
Ma la mattina seguente verso le undici, mentre egli ancora a letto meditava sulla propria sorte fumando, seduto in mezzo a un cumulo di guanciali, col pijama di seta azzurro pallido e i lunghi capelli ondulati e disordinati che gli davano un aspetto efebico, gli si precipitò in camera vestita da amazzone la sua turbinosa amante che già tornava da una cavalcata a Villa Borghese.
— Aoh! Darlìng! Ancora a letto? — gli gridò gaiamente, battendogli sulle gambe il frustino in legno di Malacca. Gli passò nei capelli la mano inguantata, gli tolse dalle labbra la sigaretta, la portò alla sua bocca e incominciò a fumare seduta a piè del letto, con una gamba sull’altra, scoprendo interamente gli alti stivali di vernice nera.
— Sai, dear, che cosa m’hanno detto stamattina?
— Che sei la più deliziosa amazzone di Roma.
Ella rise lungamente, buttò la sigaretta, si alzò e con le mani nelle due tasche s’inchinò a ringraziare. Poi gli si accostò divenendo seria:
— Mi hanno detto che tu sei completamente rovinato. E ciò, si capisce, per colpa mia.
— Ebbene? Che importa? — le rispose dopo un momento Siniscalchi, sollevando adagio le spalle e cercando un’aria noncurante che le rughe della sua fronte smentivano.
— Aoh, darling! Importa invece moltissimo. Per me un uomo senza business, senza danari, è come per te una donna brutta, mal vestita, con le unghie non curate e i denti guasti. L’uomo povero mi fa questo effetto. Non posso più vedermelo vicino, non posso più amarlo, bisogna ch’io lo lasci.
— Ch’è graziosa questa tua feroce brutalità americana!— rise a denti stretti Emo. E asciugò la fronte col fazzoletto ad orli azzurri che usciva dal taschino del suo pijama. Poi scoppiò a ridere e con una certa disinvoltura proseguì:
— L’affare è presto liquidato, cara. Dimmi soltanto se partirai tu o se partirò io.
Lady Simpson s’era di nuovo seduta a piè del letto, sul quale aveva posato il piccolo cappello duro da amazzone che andava picchiando ritmicamente col suo frustino.
— Ho incontrato qui sotto nell’hall mio cugino William Shepherd e gli ho parlato di te.
— Che c’entra tuo cugino? Ha forse una figliuola da marito?
— Aoh! — rise Zoia a gran voce. — Non ha neppure moglie. Ma ha invece a Boston parecchie fabbriche di latte condensato che gli rendono ogni anno non so più quanti milioni. È venuto in Italia per cercare degli agenti di pubblicità. Gli ho detto che tu conosci abbastanza bene l’inglese e gli ho proposto di... come si dice? Di scritturarti.
— Difatti è una bella parte, — mormorò Emo fra i denti.
— Non tanto bella, ma utile, — ribattè l’americana senza comprendere l’ironia. — In pochi anni potrai rifarti con mio cugino William Shepherd la fortuna che hai perduto con me. Accetti?
Emo Siniscalchi non rispose. Alzò gli occhi al soffitto e soffiò in aria, lentamente, il fumo della sua sigaretta, ciò che gli permise di trarre con eleganza un lungo sospiro iroso.
— Pensaci. Io intanto vado a vestirmi per la colazione — concluse Zoia. E s’alzò, raccolse nel pugno lo strascico della sua amazzone, volgendosi a sorridergli e dirigendosi alla sua camera.
— Io vado fuori con un amico — le rispose Emo di malumore mentre ella scompariva dietro il battente socchiuso.
Gettò indietro le coperte, suonò ed ordinò il bagno. Quando fu vestito uscì dall’albergo senza salutarla, prese una carrozzella e si fece portare al Castello dei Cesari. Mangiò svogliatamente tutto solo a una piccola tavola d’angolo sulla vasta terrazza, poi discese a piedi dal colle e si trovò in una piazza, davanti a un tranvai elettrico che partiva. Vi salì senza sapere dove fosse diretto e andò a finire presso il lago di Nemi.
Girovagò parecchie ore con l’anima scontenta, più esasperato che confortato da quella solitudine piena di fresca serenità; e la sera alle nove rientrò all’albergo ripreso da un desiderio violento della donna che amava, con il bisogno furibondo di stringere a sè la sua morbidezza calda e odorosa, di mordere la sua bocca ridente fino a farla gemere di dolore e di piacere.
Mentre entrava nell’ascensore il portiere venne a consegnargli una lettera.
— La signora Simpson ha lasciato questo biglietto per lei.
— La signora è uscita?
— No, signor conte. È partita.
Tremando, con le mani diacce, Emo strappò la busta, aperse il foglio. Non conteneva che queste parole: «Mio cugino William Shepherd occupa la camera N. 47. Ti aspetta domattina alle otto».
⁂
Una sera d’estate Emo Siniscalchi s’imbarcava a New York sul grande transatlantico Medusa che doveva riportarlo in Italia dopo quattro anni d’assenza.
Aveva ancora nel cervello lo stordimento continuo, ma cosciente e incitante che l’enorme città piena di fragori e di traffici aveva suscitato fin dal primo giorno nel suo sensibile sistema nervoso di latino. Ma quando furono al largo e quel ronzìo immenso di turbinosa metropoli si andò a poco a poco allontanando fino a rimanere inghiottito da un vasto silenzio e da un orizzonte senza confini, egli appoggiato alla ringhiera presso il ponte di comando, trasse un sospiro di infinito sollievo.
Tornava finalmente al suo paese dopo quegli anni di affannosa operosità durante i quali la sua dolce pigrizia, la sua sognatrice indolenza d’uomo abituato all’ozio, erano state travolte da quel turbine d’azione e di movimento al quale era impossibile sottrarsi.
Anch’egli sulle tracce di William Shepherd che se l’era portato seco quattro anni prima dall’Italia, aveva dovuto buttarsi ad occhi chiusi e a pugni serrati in quella corsa alla ricchezza, continua febbrile sfrenata, che occorreva seguire per non rimanere a terra calpestato dagli altri.
Aveva riacquistato, moltiplicato la sua fortuna e tornava in Italia per incarico di William Shepherd, ma quanto più s’allontanava dalla città fremebonda e ruggente, accovacciata laggiù come un’enorme belva al guinzaglio, ritrovava a grado a grado in sè l’antica anima di sognatore un po’ ozioso e un po’ vizioso che gli pareva d’aver smarrito per via, quando aveva compiuto in senso opposto quel viaggio.
Sentiva risorgere in sè reminiscenze confuse, sensazioni attenuate, parole sommesse. E su tutto emergere un solo profilo ben definito, uno sfolgorìo di capelli d’oro e di denti bianchi, una voce dal timbro un po’ maschio e un po’ fanciullesco che gli gettava in faccia con una grazia bizzarra parole brutalmente franche.
Ne sorrideva ora, come si sorride al ricordo della benefica sgridata materna che ci trasse singhiozzi disperati quando eravamo bambini, ma che pure ottenne più tardi il suo effetto.
Doveva riconoscere ch’era stata per lui una deliziosa amica, così tipica, così caratteristica in quella sua esuberanza di vitalità che si manifestava ora sotto l’aspetto piacevole dell’amore ad oltranza, ora sotto quello ansimante dell’instabilità continua, e che lo incitava come un liquore afrodisiaco o come un colpo di staffile.
Emo Siniscalchi gettò in mare la sigaretta che gli si era spenta fra le labbra e si volse per rimettersi a passeggiare e per sottrarsi a quell’ondata calda e inebriante di ricordi.
Alcune viaggiatrici facevano già disporre le sedie a sdraio per allungarvisi a prendere il thè e a lasciarsi corteggiare, come su una spiaggia di bagni alla moda o sulla terrazza di un albergo galleggiante.
Egli le passò in rivista con uno sguardo distratto e notò che nessuna gli pareva molto bella o eccessivamente elegante. Stava dirigendosi alla sala di lettura quando un’esclamazione, di colpo, lo fermò.
— Aoh! darling! — gridava una voce fra maschia e fanciullesca alle sue spalle. — Lo sapete che vi cerco da mezz’ora?
Le sue mani afferrarono e strinsero avidamente le piccole mani morbide di Zoia Simpson che gli gettava in faccia la sua risata gioconda.
— Sono arrivata ieri l’altro a New York, ho saputo da Shepherd che partivate oggi sul Medusa ho pagato quattro volte una cabina con salotto già promessa ad un altro e sono partita con voi.
— Cara! Pensavo a te in questo momento.
— Non è vero, ma non importa. Io so che oggi vali centomila dollari e perciò ti amo di nuovo.
— Come sei sempre tu e come mi piaci sempre! — egli esclamò restando a contemplarla con occhi estatici.
Ella aveva sprofondato le mani nelle tasche del suo jersey di seta color smeraldo e cessò di ridere per mandargli un bacio a mezz’aria con le rosse labbra protese. Poi lo afferrò pel braccio con la mano sottile e forte e lo trasse con sè.
— Vieni giù nel mio salotto. Prenderemo insieme il thè e mi dirai se sei disposto ancora ad amarmi.
— Sono disposto a fare tutto ciò che vorrai.
Ella che lo precedeva sulla scaletta di bordo gli si volse rapida, con gli occhi balenanti:
— Anche a lasciarti rovinare un’altra volta?
— Non chiedo di meglio, amore — le rispose Emo Siniscalchi.
E poichè la sua vertiginosa amante d’un giorno gli era vicinissima, come la sera del loro incontro alle Isole Borromee, egli si lanciò intorno un rapido sguardo, poi si curvò su di lei, la strinse alle spalle e la baciò sulla nuca.