La moglie di un grand'uomo ed altre novelle/Palco borghese
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PALCO BORGHESE.
Nei momenti interessanti del dramma, quel palco offriva uno spettacolo degno di ammirazione: quelli che lo occupavano — undici persone — formavano un gruppo di fisonomie ansiose, di occhi spalancati, di bocche semiaperte, di corpi abbandonati; il che attestava qualmente i legittimi e rispettivi possessori di quei corpi, di quegli occhi, di quelle bocche, fossero profondamente attenti alla rappresentazione. Schierate in fila di battaglia sul davanti, erano quattro fanciulle, volti graziosi, niente intelligenti, linee superficiali, occhi a fior di testa, capelli castani, bellissime borghesi napoletane. La prima aveva fatto un tentativo di abito Pompadour, mettendo dei nastri rosa sopra un abito azzurro; tentativo ingenuamente sbagliato, perchè il rosa tendeva al rosso, e l’azzurro era troppo cupo. La seconda portava quella tale toilette, cara alle abitatrici di Floria, dove il giallo si mescola al marrone a furia di losanghe, di striscie, di pieghe, di maniche differenti: imbroglio inestricabile. La terza si pavoneggiava in un abito bianco cucito da lei, adorno di trine lavorate in casa, stirato in casa, rialzalo da nastri multicolori; giusto un anno e mezzo di arretrato sulla moda. L’ultima infine aveva fatta la felice scelta di una polacca verde-pisello, capace di dare l’emicrania ad una persona di nervi delicati. Tutte quattro erano incipriate di quella grossa cipria che lascia le macchie bianche, come di gesso; tutte portavano nei capelli nodi di nastro, spilli di chincaglieria, fiori artificiali: tutte erano cariche di perle false, di braccialetti in velluto, di lunghi orecchini; erano soffocate dai loro triplici jabots; portavano guanti troppo corti, con filetti bianchi di dieci anni fa, mezzo sbottonati; una li aveva nuovi fiammanti color burro, troppo stretti, e se li guardava con grande compiacenza, rimanendo immobile per paura d’insudiciarli.
Dietro, due vecchie; capelli grigi, treccia finta tutta nera, figure arcigne, labbra calcolatrici, catena di oro al collo, spillo col ritratto del coniuge — una bambina. In terza linea il soprabitone nuovo di don Giovanbattista Fasanaro, negoziante di pannine e segretario della sua Congregazione, con dentro la rispettabile persona del proprietario; insieme tre giovanotti: il primo commesso del negozio, il figlio del droghiere ed il nipote dell’orefice. Tutti tre serrati nel soprabito delle domeniche, rossi nei colletti troppo alti e troppo duri, fieri della dritta scriminatura e del fiore che ornava i rispettivi occhielli; tutti tre pretendenti delle figlie di don Giovanbattista. In tutto, dunque, undici: una borghesia grassa, grossa, beatamente cretina, piena del suo merito, piena del suo disprezzo per quello che è fine, per quello che è artistico; un palco borghese che fioriva alla luce del gas nel teatro Sannazzaro.
⁂
Eppure — o voi che ogni sera andate in teatro, che vi entrate sbadigliando e ne uscite pallido di noia, che non avete più curiosità, e non vi dolete di non averne, imparate — eppure, quel palco era tutto una storia tutto un romanzo, quasi un poema. Il borghese napoletano ama il teatro, ma il suo godimento si raffina quando ci va con un biglietto regalato: era il caso. Era tempo che un giornalista, capitato laggiù, ai Lanzieri, per una combinazione strana, come un greco in America, era tempo che gli aveva promesso un palco al rispettabile negoziante. La famiglia, all’annunzio, era andata in visibilio; le fanciulle ne sognavano la notte e pensavano quale abito era conveniente, come dovevano pettinarsi, che figura avrebbero fatto. Tutte le amiche avevano avuto partecipazione della lieta novella, si chiedevano consigli, si sostenevano discussioni: una signorina che abitava di faccia e che aveva avuto la fortuna di vedere il Sannazzaro, era chiamata ogni tanto al balcone, per ripetere le più minute spiegazioni. Per otto giorni non si vedevano per casa che nastri, fiori, sciarpe, veli; non si udivano che grandi colpi di ferro sulle gonne da insaldare; lo specchio era consultato ad ogni momento; le sorelle tenevano conciliaboli negli angoli delle stanze, la cugina, invitata, era commossa per la riconoscenza. Ma il palco non veniva. Prima si cominciò a scusare il giornalista: poverino aveva tanta gente da contentare — e forse attendeva una serata propizia, forse il teatro era stato sempre pieno. Poi subentrò un po’ di inquietudine: avesse dimenticato — e i preparativi e giù annunzi allo amiche e le speranze concepite? Infine, infine tutto è scordato, il cartellino rosso è giunto: terza fila, un po’ in alto; numero due, un po’ di fianco ma che importa? si va: tanto basta!
Quel giorno la casa è sossopra, tutto va di traverso, regna la confusione; le fanciulle sono in gonnellino corto, i capelli ravvolti nelle cartine; sui letti fanno bella mostra gli abiti spiegati, i fiori, i guanti, i fazzoletti, le mantelline; i consueti lavori sono abbandonati; è cambiata l’ora del pranzo; non si dorme nel pomeriggio, il negozio si chiude più presto: don Giovanbattista dice ai suoi clienti, spicciandoli in fretta: Scusate, ma stassera vado a teatro, con la famiglia. I tre giovanotti passano un’ora nel salon de coiffure per farsi radere, pettinare ed arricciare. Si appressa lentamente l’ora; le fanciulle litigano fra loro: l’una trova brutta l’altra, la terza ha bisogno di spille, la cugina corre di qua e di là prestando il suo aiuto, rendendosi utile; le vecchie brontolano, ma non troppo; la bambina piange, perchè ha un ventaglio rotto di sei soldi e la sorellina più grande ha confiscato quello bello che le regalò la matrigna; infine, dopo molto chiasso, circa tre ore prima della rappresentazione, ma sempre con paura di far tardi, tutti sono pronti; le giovinette danno una occhiatina allo specchio, don Giovanbattista porta via la chiave di casa e ripete, passando, al portinaio:
— Giacomino, andiamo al teatro, si torna tardi.
Arrivano, le porte sono ancora chiuse, passeggiano, vedono giungere gli attori, i pompieri, i carabinieri; appena si aprono le porte, entrano in teatro, è oscuro sono i primi — non importa. Ci sono. Con che orgoglio prendono possesso dei loro posti! Come ammirano tutto! Come esaminano minutamente ogni signora che entra!
E quella, sera la Marini recitava nella Signora delle camelie.
⁂
Comprendete? Sulla scena la Marini ride, folleggia, freme, ama, singhiozza, agonizza: e lassù quelle quattro fanciulle sono attente, commosse, trasportate; questa impallidisce, una diventa rossa, un’altra fa il viso serio e stringe le labbra come un fanciullo che abbia bevuto un vino troppo forte: all’ultima scorrono le lagrime e sono ribevute dalle guancie accaldate. Negli intervalli esse rimangono silenziose, distratte, quasi stordite, — ed intanto guardano una bella figura di donna, tutta sola in un palco, la guardano, sospirose d’invidia pel volto puro e bianco, per gli occhi ammaliatori, per l’abito di raso, ricco di merletti, pel fuoco liquido e freddo dei brillanti.
Comprendete? Sulla scena Margherita muore di amore; le solite frequentatrici del Sannazzaro, belle giovinette, eleganti signore, abbonate della prima dispari, non piangono e non pensano: tutt’al più discutono il valore artistico della Marini e spiegano se Armando deve essere biondo come Ceresa o bruno come Pasta. Ma le fanciulle borghesi rimangono pensose; la notte forse non dormono, peggio, forse sognano; l’indomani hanno il disgusto della loro vita prosaica e senza dramma — e negli angoli solitarii, a mezza voce nella penombra, raccontano alle loro amiche la storia di Margherita.
Ebbene, sarebbe stato meglio per voi, o buone e stupide fanciulle, di non essere andate a questo teatro. Voi non aspetta il dramma dell’amore, voi non saprete mai di quella passione che fa più vittime di ogni più crudele epidemia: i placidi mariti, la drogheria, l’oreficeria, i figliuoli, la casa nulla richieggono di questi gridi strazianti. Io non so perchè vi hanno condotte a questo teatro, io non so perchè vi hanno fatto intravedere un mondo, che non sarà mai il vostro; meglio per voi passare la serata attorno ad un tavolino, sotto la lampada a petrolio, lavorando l’uncinetto e guardando il fidanzato. Meglio sul terrazzo mentre la luna scintilla, l’organino suona da lontano e i garofani olezzano; meglio a vespro, quando il predicatore spiega le gioie del paradiso. Se per un istante è stata turbata la pace della vostra ignoranza, se un solo lampo vi ha illuminato un paesaggio sconfinato, se avete sofferto un sol minuto, se v’è entrato nell’anima un desiderio ignoto, se avete intuito quanto non sarà mai vostro, se vi è noto un rimpianto, allora quel vostro palco che sembrava una festa, è stata invece una crudeltà.