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La seconda portava quella tale toilette, cara alle abitatrici di Floria, dove il giallo si mescola al marrone a furia di losanghe, di striscie, di pieghe, di maniche differenti: imbroglio inestricabile. La terza si pavoneggiava in un abito bianco cucito da lei, adorno di trine lavorate in casa, stirato in casa, rialzalo da nastri multicolori; giusto un anno e mezzo di arretrato sulla moda. L’ultima infine aveva fatta la felice scelta di una polacca verde-pisello, capace di dare l’emicrania ad una persona di nervi delicati. Tutte quattro erano incipriate di quella grossa cipria che lascia le macchie bianche, come di gesso; tutte portavano nei capelli nodi di nastro, spilli di chincaglieria, fiori artificiali: tutte erano cariche di perle false, di braccialetti in velluto, di lunghi orecchini; erano soffocate dai loro triplici jabots; portavano guanti troppo corti, con filetti bianchi di dieci anni fa, mezzo sbottonati; una li aveva nuovi fiammanti color burro, troppo stretti, e se li guardava con grande compiacenza, rimanendo immobile per paura d’insudiciarli.

Dietro, due vecchie; capelli grigi, treccia finta tutta nera, figure arcigne, labbra calcolatrici, catena di oro al collo, spillo col ritratto del coniuge — una bambina. In terza linea il sopra-