La miseria di Napoli/Parte III - Proposte e tentativi fatti per migliorare le condizioni di Napoli/Capitolo IV. Carceri

Parte III - Proposte e tentativi fatti per migliorare le condizioni di Napoli - Capitolo IV. Carceri

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CAPITOLO QUARTO.

Carceri.


Se la miseria inaudita che trovai in Napoli mi preparava alle tristi verità rivelate dalle Statistiche delle carceri, le visite lunghe e particolareggiate a queste carceri mi han fatto quasi maravigliare che il numero de’ rei non fosse ancor più grande; tale è il contrasto fra gli agi che essi godono e lo stento dei liberi e innocenti.

Quando il filantropo Howard cominciava la sua crociata contro il sistema brutale usato nelle prigioni d’Inghilterra, era ben lontano dall’immaginare che in meno di cinquant’anni le prigioni muterebbonsi in luoghi di delizia, confrontati alle loro abituali dimore. Egli descriveva le celle che visitava, piccole, oscure, senz’aria e senza scolo, tombe di viventi. Diceva che una settimana di quelle sporche, fetide, crudeli case di tortura era peggio di un anno di qualunque altra sofferenza: terribili per il dolore inflitto, di efficacia sicura nella loro corruttela, colpendo gl’innocenti con un senso di disperazione, provocando il colpevole a delitti ancora più audaci. Il grande Beccaria viveva contemporaneo dell’Howard; ambedue nei rispettivi paesi seppero persuadere i loro concittadini che [p. 180 modifica]la società ha il diritto di proteggersi, non di vendicarsi, che lo scopo della punizione del reo deve ristringersi a protestare energicamente contro il male e prevenire il crimine, a dissuadere coll’esempio la consumazione di altri delitti.

Al principio di questo secolo, una donna quacchera contribuì potentemente a migliorare la condizione dei carcerati. Elisabetta Fry nel 1813 scosse l’Inghilterra da capo a fondo col narrare le condizioni orrende di Newgate, ove insubordinazione, sporcizia e depravazione eran pervenute all’ultimo grado. Si costituirono Società per visitare le prigioni ed i bastimenti che trasportavano i condannati alle Colonie penali; si fondarono dappertutto Penitenziarii per le donne, Riformatorii per i minorenni.

Gli Stati Uniti in ciò come in tante altre cose vinsero la madre patria, e mai come in questa materia non fu provata la tendenza della natura umana a procedere per azione e per reazione. La filantropia degenerava in sentimentalismo, ed i sentimentali ragiona vano così: «La colpa dell’individuo è il risultato della colpa della società, della disuguaglianza, dell’ingordigia dei capitalisti, delle guerre fatte a pro di un potente, dell’ignoranza inculcata dai preti e permessa dallo Stato. Dunque si compensi il delinquente per il male che la società l’ha condotto a fare.»

Ed ecco subito Prigioni-modello, i migliori uomini per mente e per cuore scelti a dirigerle, lavoro leggiero e piacevole provveduto e compensato, punizioni severe proibite, maestri di scuola e pastori pagati per istruire e convertire al bene i rei. [p. 181 modifica]L’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda poi gareggiavano coi loro sistemi. Sembrava che l’unico problema del secolo fosse quello di raddolcire le pene di chi aveva infrante le leggi.

Primo a protestare contro questo eccesso di reazione fu Tommaso Carlyle, che in un opuscolo intitolato: Le Prigioni-modello, dimostrava il lato esagerato del movimento, asseverando che invece di accarezzare i Reggimenti di linea del Diavolo (così egli umoristicamente chiamava i condannati) sarebbe meglio istruire, far lavorare, aiutare i ventidue milioni che finora s’erano rifiutati di arruolarsi nel detto esercito. Descrisse una prigione-modello di Londra. Bellissimo Stabilimento, oasi di purità per i soldati del diavolo, costrutto in un quartiere di misere abitazioni, ove i non ancora arruolati lottano virilmente contro la tentazione di arruolarsi, lottano nelle tetre officine, spezzando marmo, segando legna, conciando pelli; nelle luride cantine, al deschetto del ciabattino, nelle umide bottegucce, vendendo sardelle incrociate con pipe; lottando insomma di tutta forza per tenere il diavolo fuori della porta, e non cedere alle sue tentazioni. «Ed è tassando questi, — esclama l’Autore, — che avete costruite quelle stupende caserme per i reggimenti del diavolo. Sì, tassando il misero venditore di sardelle, fate quelle sugose minestre per gli eletti di Satana.»

Entra poi nello Stabilimento stesso, assaggia il pane, il cacio, la minestra, la carne, trova tutto eccellente. Entra nella camera di lavoro, ove in ariosi appartamenti di temperatura deliziosa e di perfetta ventilazione i prigionieri puliscono lino, canape e [p. 182 modifica]fanno altri lavori poco faticosi; poi, quando sono stanchi, fanno un’ora di passeggiata in cortili spaziosi ed ariosi; pace metodica, pulizia esemplare, benessere sostanziale regnano dappertutto. Entra nelle celle separate, ove ognuno ha un cortile privato per passeggiare, e così apostrofa un noto delinquente letterato: «O felicissimo scellerato, eccovi qua sequestrato dal mondo e dalle sue cure, padrone del vostro tempo e delle vostre attitudini mentali: ahimè! se io fossi così sequestrato, così chiuso, con carta e inchiostro, nutrito, vestito, non dovendo pagar tasse o aver altre seccature, scriverei un libro che da me, vivendo come vivo in mezzo alle umane disgrazie, il mondo giammai non avrà.»

Parla col Direttore dello Stabilimento, che gli dice non essergli permesso di punire i 1200 soldati del diavolo se non privandoli di una pietanza; doverli governare coll’amore, colla persuasione, colle preghiere; e inveisce contro il suo paese, ridotto ad una «Universale Società Protettrice di oziosi e di ribaldi.»

Quando io leggeva quest’opuscolo ventisei anni sono, mi pareva non scevro di esagerazione il Carlyle, sebbene egli fosse lo scrittore idolatrato dalla gioventù d’allora; ma quando io visitava le prigioni di Napoli, le Case di pena di Sant’Eframo e fino i Bagni di Nisida, mi associava pienamente alle sue critiche e sentiva tutta la forza della sua invettiva.

Oggidì la pena di morte è virtualmente abolita. La società moderna sentesi talmente convinta della sua ingiustizia e della inutilità come esempio, che nei casi più flagranti di delitto, o il Giuri non la [p. 183 modifica]applica o trova circostanze attenuanti; e se il giudice condanna, il pubblico manda al capo dello Stato una petizione per grazia, e il reo finisce per essere oggetto di commiserazione, invece di giusta riprovazione.

Divengono poi sempre più rare le condanne di galera a vita, o se avvengano, le pene sono commutate. L’idea di vendetta, l’idea unica che in altri tempi informava le legislazioni penali, è bandita, e giustamente, perchè la vendetta offusca la mente di chi la esercita, come il cane idrofobo comunica il proprio veleno ad altre vittime, e così di mano in mano. Tutti accettano che debbasi trovare il modo di convincere del misfatto il reo, ispirargliene orrore, cosicchè ritornato alla società, o per vera penitenza, o per paura delle conseguenze del male, egli non abbia a ricommetterlo. Ma per ottenere questo scopo, bisogna fare in modo che, venuto il dì dell’uscita dalle carceri, tale sia stata la punizione che, quando Dio non lo privi della ragione, non passerà mai più l’aborrita soglia, ove ogni cosa, ogni fisonomia, ogni occupazione gli diceva: «Sei reo.» Ora nulla può provare se questo scopo sia ottenuto quanto le statistiche dei recidivi. A noi non pare che in Italia generalmente, e in Napoli specialmente, questo scopo sia ottenuto.

Esistevano nelle Carceri giudiziarie di Napoli alla fine del 1875; 1417 maschi e 159 femmine. Nel Napoletano, tutto compreso, presso a poco 13,000. Ma il credere che queste cifre ci dieno un’idea del numero dei veri delinquenti, è una vera illusione, e la sarà sempre, finchè la Polizia resterà tale qual’è. [p. 184 modifica]

Nè i Moderati nè i Progressisti vogliono persuadersi che i poliziotti di Napoli si conservino, quali erano sotto il Borbone, profondamente corrotti. Sotto i Moderati, continuavano il sistema appreso sotto il Borbone, il sistema dell’arbitrio e della prepotenza: arrestavano, minacciavano, bastonavano da orbi, liberavano chi li pagava.

Tali grida vennero udite contro il modo d’operare dei poliziotti, che i Progressisti se ne impensierirono, e avvennero molti traslocamenti di alti funzionarii. Le guardie di Pubblica Sicurezza soggiacquero a rigori eccessivi, fino a vedersi vietata l’uscita dalla loro sezione non accompagnati, nelle poche ore di libertà.

Si sono quindi proibiti rigorosamente il volpino (nerbo) e le bastonate, e si pretende che queste guardie, avvezze ad insegnare il dovere al lazzarone col bastone, si conducano con garbo, è trattino gli arrestati con tutte le regole della civiltà; e risulta che essi si trovano come pesci fuori dell’acqua, non fanno il servizio e non sanno più farsi rispettare. I mariuoli, avvezzi ad esser bastonati, approfittano di questa rilassatezza, e mentre prima si prendevano quante bastonate si davan loro, ora nell’atto che i poliziotti si accingono ad arrestarli, essi gridano loro: «Badate, non toccatemi, o ve la faccio pagare.»

L’Autorità avvedendosi che i mariuoli alzavano la testa, ne mando molti a domicilio coatto, ciò che il Napoletano teme più di qualunque altra punizione, ma non pertanto la giustizia si fa strada. Bisogna che le Autorità si convincano per sempre che gente avvezza ai sistemi del Borbone non può essere adatta [p. 185 modifica]ai nuovi. Se non si vogliono importare poliziotti dall’Italia superiore, si prendano almeno Pugliesi, Abruzzesi, Calabresi o Siculi, purchè non siano di Napoli, e non abbiano aderenze nella città e nei dintorni.

Bisogna far tavola rasa del vecchio arnese del Borbone, perchè senza uomini nuovi il nuovo Regolamento rimarrà inefficace.

Da questa corruttela nella Polizia emerge la gran difficoltà di scoprire i rei. Costoro riescono sempre a mantenere corrispondenza di fuori; spesso se la famiglia di un arrestato paga bene la Polizia, questa disdice il già detto, e confessa di essersi ingannata. Per quanto faccia il Direttore delle Carceri giudiziarie, per quanto cerchi di depurare il personale, di classificare i detenuti, di separare specialmente i camorristi, egli non può riuscire anche per la natura dei locali a separare gl’innocenti dai colpevoli.

Lavoro organizzato non ci può essere in una popolazione che cambia ogni giorno. Sono tutti ben trattati, mangiano per la maggior parte assai meglio che in casa loro, hanno una -razione di pane giornaliera da soldato, divisa in due parti, una minestra con dita con olio o con lardo nei di feriali, una zuppa al brodo con carne di bue o di vitella la domenica. Di più si permette loro di mangiare tutto ciò che manda la famiglia.

Ogni loro richiamo è ascoltato all’istante, e col sistema vigente di lungo imprigionamento preventivo trovate detenuti da sei mesi e anche da un anno; e quando eglino escono per non farsi luogo a [p. 186 modifica]procedere, dopo il lungo tempo di ozio e di convivenza con malvagi ritornano alla società col senso dell’ingiustizia sofferta, colle cattive idee acquistate, e alla fine dei conti colla sensazione che al postutto non si sta tanto male in prigione, quanto nei tugurii, ove, per mangiar miseramente, bisogna lavorar molto.