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8 capitolo i.


non ne parlavano già più. La cosa pareva caduta nel silenzioso abisso della dimenticanza, dove fatalmente spariscono tutti i progetti assurdi e tutte le utopie.

Ma no. Qualcuno vi pensava ancora, lavorava, preparava, organizzava. Me lo fece comprendere un breve telegramma, un ordine che trovai una sera all’albergo, a New-York, e che mi venne consegnato insieme alla chiave della camera. Lo disuggellai nella cabina dell’ascensore che mi trasportava al mio piano; lo lessi, lo rilessi, e rimasi così assorto che giunsi senza accorgermene al quattordicesimo piano, dove il liftman mi domandò se intendevo andare sul tetto dell’albergo.

Quella laconica e misteriosa comunicazione telegrafica diceva: Trovatevi a Pechino il primo di Giugno. Niente altro.

Puntuale come un’eclisse, il primo di giugno, alle sei di sera, scendevo alla stazione di Pechino, in quella volgare stazione che si addossa ai piedi delle antiche superbe muraglie della città tartara, sotto agli imponenti bastioni della Chien-men, quasi per nascondere nell’ombra di tanta grandezza la sua meschinità e la sua profanazione. Quella stessa sera un gendarme italiano venne a cercarmi all’Hotel des Wagons-lits e mi diede una lettera, giunta per me alla Legazione d’Italia, ed un biglietto.

La lettera era della Direzione del Corriere della Sera e completava — dopo quasi due mesi — il dispaccio ricevuto a New-York. Essa m’informava che avrei partecipato alla corsa sull’Itala del Principe Scipione Borghese. E ne fui molto lieto. Un’altra notizia mi dava, che accolsi con sincero piacere: per un accordo intervenuto fra il Corriere della Sera e il Daily Telegraph, io ero invitato a fare un regolare servizio di resoconti telegrafici sulla Pechino-Parigi anche per il grande giornale londinese.

Non posso dimenticare che è a Londra che ho cominciato ad essere giornalista. E del soggiorno che feci come corrispondente sulla terra inglese — durante il quale l’anima mia si aprì al grandioso spettacolo di una attività mondiale — è rimasto in