La madre (Deledda)/Capitolo 11

Capitolo 11

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Poi egli si rivedeva nella medesima strada ove buttava i sassi ai passanti, ma più giù, allo svolto verso un vicolo umido, chiuso in fondo da un gruppo di stamberghe nere.

Egli abitava fra la strada e il vicolo, in una casia di gente per bene, tutte donne grasse e serie che chiudevano porte e finestre sul far della sera e ricevevano solo altre donne e preti coi quali scherzavano, anche, ma ridendo appena a fior di labbro con compostezza. [p. 63 modifica]Era stato appunto uno di questi preti che un giorno, dopo averlo preso per gli omeri, stringendolo forte fra le gambe ossute e sollevandogli vigorosamente con la mano il viso timido vergognoso, gli aveva chiesto:

— È vero che vuoi farti prete?

Egli accennò di sì con la testa: e dopo aver ricevuto un’immagine sacra e un dolce schiacciato, era rimasto lì in un angolo ad ascoltare i discorsi delle donne e dei preti; parlavano del parroco di Aar, raccontando che andava a caccia e fumava la pipa e si lasciava crescere la barba: tuttavia il vescovo non voleva interdirlo perchè difficilmente un altro prete avrebbe acconsentito ad andare nel paesotto sperduto. D’altronde lo spregiudicato parroco minacciava di legare e di buttare nel torrente chiunque osasse togliergli il posto.

— Il peggio è che quei semplici di Aar gli vogliono bene ed hanno antiche paura di lui e dei suoi sortilegi. Alcuni lo credono l’Anticristo. Le donne dicono che [p. 64 modifica]lo aiuteranno a legare e buttare nel fiume il successore.

— Hai sentito, Paulo? Se ti fai prete e vuoi andare nel paese di tua madre, preparati a bere.

Era una donna che scherzava, Marielena, quella che aveva cura di lui e quando lo pettinava lo attirava a sè e col suo ventre caldo e il suo petto molle gli dava l’impressione di un cuscino ovattato. Egli voleva molto bene a questa Marielena; nonostante il corpo dovizioso ella aveva un viso fine, con le guance venate di rosa e gli occhi castani d’una dolcezza languida: egli la guardava di sotto in su, come si guarda il frutto maturo sulla pianta: forse ella era stata il suo primo amore.

Poi cominciarono i giorni del Seminario. Al Seminario lo aveva condotto la madre, una mattina di ottobre, azzurra, odorosa di mosto. Ecco la strada in salita, e in alto l’arco che unisce il Seminario alla casa del vescovo, incurvato e come una grande cornice sul quadro del [p. 65 modifica]chiaro paesaggio di casette, d’alberi, di scalini di granito, con la torre della cattedrale in fondo. L’erba rinasceva sul selciato, davanti alla casa del vescovo: passavano uomini a cavallo, e ì cavalli avevano le gambe lunghe, i garetti pelosi, i ferri lucidi. Egli notava queste cose perchè guardava per terra, un po’ vergognoso di sè, un po’ vergognoso della madre. Sì, perchè non dirlo una buona volta? S’era sempre un po’ vergognato di sua madre, perchè serva, perchè di quel paesetto di semplici. Solo più tardi, molto più tardi, aveva vinto questo suo istinto ignobile a furia di volontà e di orgoglio, e più s’era irragionevolmente vergognato della sua origine, più se n’era poi gloriato, di fronte a sè stesso e di fronte a Dio, scegliendo per soggiorno il miserabile paesetto, e sottoponendosi a sua madre, rispettandone i voleri più umili e le abitudini più meschine.

Ma al ricordo di sua madre serva, anzi meno che serva, sguattera nella cucina del Seminario, si riallacciavano i ricordi [p. 66 modifica]più umilianti della sua adolescenza. Eppure ella serviva per lui. Nei giorni di confessione e comunione, i superiori lo costringevano ad andare a baciarle la mano per chiederle perdono delle mancanze commesse. Quella mano ch’ella si asciugava rapida con lo strofinaccio odorava di lisciva ed era tutta screpolata come un muro vecchio; egli provava vergogna e rabbia nel baciarla, ma domandava perdono a Dio di non poter chiedere perdono a lei.

Dio anzi gli si era rivelato così, come nascosto dietro sua madre nella cucina umida e fumosa del Seminario; Dio che sta in ogni luogo, in cielo e in terra e in tutte le cose.

Nelle ore di esaltazione, quando con gli occhi spalancati nel buio, nella sua cameretta, pensava meravigliato «io sarò prete; io potrò consacrare l’ostia e farla Dio», pensava anche alla madre, e, da lontano, non vedendola, l’amava, riconosceva che a lei risaliva la grandezza sua stessa, a lei che invece di mandarlo a [p. 67 modifica]pascolar le capre o a trasportare sacchi di frumento al molino, come i suoi maggiori, ne faceva un sacerdote, uno che poteva consacrare l’ostia e mutarla in Dio.

Così egli concepiva la sua missione. Non aveva conosciuto nulla del mondo: le cerimonie delle grandi feste religiose erano i suoi ricordi più coloriti, più sensuali. Ancora gli destavano, ricordandole attraverso il lamento ininterrotto della sua angoscia presente, un senso di gioia, dì luce: gli stavano ancora davanti come grandi quadri viventi: ed ecco che la musica dell’organo nella cattedrale e il senso di mistero delle cerimonie della settimana santa si fondevano appunto col suo dolore presente, con l’angoscia di vita e di morte che lo premeva tutto al suo letto come Cristo al sepolcro; Cristo morto che deve resuscitare ma le cui carni sanguinano ancora e la bocca è bruciata d’aceto.

Durante uno di quei periodi di turbamento mistico, aveva conosciuta la prima volta la donna. Ancora adesso a pensarci [p. 68 modifica]gli sembrava un sogno, nè brutto nè bello, solamente strano.

Tutte le feste andava a visitare le donne presso le quali era stato da ragazzo: esse lo ricevevano come fosse già un sacerdote, famigliari ed anche allegre, ma sempre dignitose; ed egli arrossiva guardando Marielena; arrossiva con un po’ di dispetto contro sè stesso perchè sebbene la donna gli piacesse ancora, gli appariva nel suo crudo realismo, grassa, molle, deforme. Eppure la presenza di lei, i suoi occhi dolci, lo eccitavano.

Spesso lei e le sorelle lo invitavano a pranzo, nei giorni di festa. Una volta, la domenica delle Palme, mentre esse apparecchiavano e aspettavano altri invitati, egli, arrivato presto, uscì nel loro orticello e si mise a camminare lungo la muriccia di cinta, sotto gli alberelli coperti di foglioline d’oro.

Il cielo era d’un azzurro latteo, l’aria calda e molle per il vento di levante: in lontananza si sentiva già il canto del cuculo. [p. 69 modifica]

D’un tratto, mentre si sollevava sulla punta dei piedi per staccare infantilmente una perla di resina da un mandorlo, vide nel vicolo di là della muriccia due occhi verdognoli dalla pupilla lunga che lo fissavano. Sembravano gli occhi di un gatto; e tutta la persona della donna, vestita di grigio, seduta aggomitolata sullo scalino di una porticina nera in fondo al vicolo, aveva qualche cosa di felino.

La rivedeva ancora, nitidamente, davanti a sè: gli sembrava di avere ancora fra il pollice e l’indice la goccia molle della resina, mentre i suoi occhi affascinati non potevano staccarsi da quelli di lei, E sopra la porticina rivedeva una piccola finestra circondata di una striscia bianca, con una piccola croce sopra. Egli conosceva bene, fin da ragazzo, quella porticina e quella finestra: e quella croce contro le tentazioni lo divertiva, perchè la donna che abitava la casupola. Maria Paska, era una donna perduta. Eccola lì ancora davanti a lui, col suo fazzoletto frangiato, aperto sul collo bianco, fin dove [p. 70 modifica]scendono come due lunghe goccie di sangue i pendenti di corallo. Coi gomiti sulle ginocchia e il viso pallido e fino fra le mani, Maria Paska non cessa di guardarlo, e finalmente gli sorride, senza muoversi: i denti bianchi, serrati, gli occhi lievemente crudeli, accentuano l’espressione felina del suo viso. D’un tratto però ella si lascia cader le mani sul grembo, solleva la testa e prende un’espressione grave e triste. Un uomo grosso, con la berretta tirata da un lato perchè gli nasconda il viso, s’avanza cauto nel vicolo, lungo il muro verso il quale si volge.

Maria Paska s’alza subito e rientra in casa: l’uomo entra dopo di lei e chiude la porta.