La frusta teatrale/VII. Le astuzie della critica
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | VI. L'estatica sognante Ossia Hjordis sposa Fabrizio | VIII. Parigi in provincia | ► |
VII
Le astuzie della critica
Poichè il moderato scetticismo connaturale col mestiere ci allontana per giusto equilibrio dalle apologie e dalle solennità conclusive, giova che il lettore avverta le adesioni attraverso gli equivoci del sottinteso e il dubbio metodico dell’equità che s’invigila. Del resto se le ineguaglianze di tono lasciassero sussistere certa sorpresa non avremmo esitazioni a confidare, senza il vincolo del segreto, il fondamentale atteggiamento di simpatia con cui seguiamo la critica e gli artifici di Alda Borelli. Anche prima di leggere Diderot ci aveva convinti la sua tragica capacità di non commuoversi. Nè si potrebbe immaginare, tra tanti attori e attrici romantici, commossi, umani, spasimanti di dedizione al personaggio che vi ammaniscono, più riposante sorpresa che la spavalda indifferenza di questa sorella e canzonatrice affettuosa di Lyda, e il magico cinismo di sapersi calcolare e risparmiare dove l’impudente menzogna del convenzionale istrionico crede di lasciar parlare la carne, i nervi, le viscere, come se fossimo tra selvaggi.
Mi è parso sempre un fatto pacifico e istintivo il dover sorridere agli usati discorsi di intelligenza delle attrici (come per lo più degli attori) trattandosi molto semplicemente, anche nei casi di qualche entità, di cimenti affatto isterici connessi alla vicenda delle evoluzioni lunari.
Non sarebbe dunque opportuno ricorrere per Alda Borelli a giustificazioni pedantesche e teoriche quando le più semplici osservazioni suggeriscono di tenersi ai risultati: in tema di sesso e carattere l’insegnamento di prudenza viene anche dalle esperienze del Nord: e si può ritenere per assodato che in questo almeno la supposta natura diabolica della donna non sia smentita, nelle inesauribili canzonature con cui ripaga i suoi teorici.
Più che una peregrinazione concettuale definitrice si richiederebbe qui per Aida Borelli un commento scenico simile a quello che tutti conoscono sulla Ristori e sul Modena, tracciato, s’intende, con la debita pazienza e con vigile attenzione.
Ma sono imprese codeste cadute in disuso, non sembrando abbastanza piccanti e redditizie, e non nascondendo con maliziosa promessa agognati segreti. O forse gli intendenti si son fatti troppo superbi e gelosi per decidersi a fermare nel momento di una significazione solenne e trasmettere alla posterità il viso di una bella donna atteggiato per essi soli a una maschera tragica. Se pure il cinematografo non prolungherà questi tramonti conservando, invece della misurata tragedia dei lineamenti, l’esasperata tensione della posa.
Del resto, meglio che ricorrendo agli strumenti meccanici della moderna magia, chi ascolti il pensiero della curiosità, potrebbe senza sofferenza immaginare i gusti e la volontà e la persona di Alda Borelli lasciando parlare le opere che attestano i limiti istintivi delle sue preferenze e delle sue ricerche, come La Donna di nessuno o Un sogno d amore. (E nella stessa linea La danza del ventre, L’Ondina, ecc.: antitetico a lei è invece l’abbondono di Monna Vanna).
Nel dramma di Cossorotov a Mary Chardin, cantatrice lirica, Andrea Luganschi, venuto di Russia a Parigi a cercare divertimento, offre una prova scherzosa: il matrimonio per un mese, un sogno d amore che non debba soffrire disillusioni, che abbia inizialmente coscienza della fugacità a cui il suo profumo è condannato. Un mese di delizie trasforma Mary e Andrea in due innamorati, forse, chissà, in due futuri sposi pieni di senno. Invece Mary Chardin che ha offerto ad Andrea per un mese le consolanti premure dell’attrice recitando con malizioso impegno la sua parte, non può, come donna, assumersi una responsabilità che sarebbe menzogna. Il rapporto è di due anime ermetiche e sottintese, che l’autore studia con disinteresse critico, aspettando la dissoluzione fatale della sua costruzione. Lentamente si svolge la confidenza. Dall’indugio nei dissidi particolari sorge gigantesco l’affetto dominante. Hai nei primi spunti, la noia chiusa di Andrea e di fronte, nel teatro di varietà, dove l’azione si svolge, la leggerezza scollacciata di Nounou e l’aspeffo satiresco di Pandarov. Il preludio ricorderebbe figurazioni tradizionali di antitesi russe. Andrea, per necessità di coscienza, vorrebbe opporre al genere di spettacolo che ha dinanzi qualcosa di più intelligente, elegante, umano, qualcosa come la Virtù. La lentezza di composizione ti sconcerta e non sai da quegli aggettivi trarre un principio fecondo di caratteristica estetica. Ma è questa crudeltà scomposta di contraddizioni che ha sedotto l’attrice. Al tormentato Andrea contrasta Michele Gemsciugin, l’elemento ironico del buon senso di fronte alla nebulosità del dissidio (Prima eri un ragazzo normale... Tu stesso non sai che cosa vuoi). L’azione non è ancora delineata, e pur la sentiamo immanente in queste anime, che parlano e pensano stando a disagio. E’ una questione di gusto, suggerisce con tagliente malignità il Cossorotov: ad Andrea, romantico, piace la voce femminile, per Pandarov, satiro, la donna è nelle ginocchia (pag. 34). Con questo animo autore, critico, attore, devono pensare il dissolversi dei personaggi. Anche quando Andrea spiegherà la sua metafisica sapremo avvertire molta ironia. Ma come, caro Andrea, vieni tu a Parigi, al teatro di varietà, a cercare la virtù? E proprio mentre vuoi godere delle donne (pag. 52) professi di non avere desiderato mai con tale intensità le semplici e buone gioie famigliari come in questo gabinetto riservato di ristorante notturno(pag. 69)? Cristallina è veramente la tua candida sensualità. Il contrasto esterno figurato per un momento in una rappresentazione d’ambiente è entrato nell’anima dell’uomo a lacerarlo; di qui innanzi nel mondo di Cossorotov una rigida responsabilità grava su ognuno. Le conseguenze sono indeprecabili: su tutta l’azione domina la logica di Mary. Andrea deve rimanere soffocato dalla colpa, fatalmente, senza liberazione. Si esamina, c’è coscienza in lui, c’è chiarezza. E qui è la condanna. La critica crolla perchè la sua opera di distruzione è suicida. La realtà è l’azione perchè l’azione non oppone alla realtà l’ipocrisia dell’ideale.
Tormentato dal contrasto tra reale e ideale Andrea trova una composizione, mentendo a se stesso, senza risolvere. La sua tendenza a unificare spirito e corpo per pregare un scio Dio e abbracciare una sola donna non lo salva dal sospetto dell’inconsistenza («dico dei pensieri miei personali... non ancora ben definiti», pag. 51): il dissidio tornerà a scoppiare quando su quella indefinitezza tornerà ad esercitarsi lo spirito critico.
A questa instabile coscienza s’oppone Mary. Poiché e impossibile liberarsi dal dualismo Mary l’accetta senza discussione. Ella non ha il tempo d’analizzarsi (pag. 141). Ella distingue in sé rigidamente la cantante-attrice dalla donna. E nella donna ancora la «gheisa» dalla vergine.
Posta la distinzione, vi resta fedele, non viene meno alla logica. Accetta tutto. La purezza e la volgarità. Si devono conciliare nella forza d’adattamento la modestia della donna e la curiosità superba dell’attrice. Alda Borelli ha bisogno di questi casi, ha bisogno di compromettere la sua sensibilità eternamente contenuta nello sforzo impassibile. Non si può piegare al gioco di sensualità della donna fatale di Wedekind, alla matta bestialità fisica de Lo spirito della terra vivo senza sottintesi nella bruciante offerta della commossa Melato. Si dovrebbe intendere come ella abbia per sempre rinunciato al giochetto delle attrici che nascondevano in romantiche reticenze o in loquaci lamenti le caratteristiche personali di gattine in amore. La sua rigidezza trova un più franco piacere nella distruzione delle ingiustizie suicide, ermetiche ad ogni confidenza di simpatia.
Andrea propone il sogno d’amore, l’illusione per un mese. Ecco il russo che parla di Dio all’osteria. Ecco l’unità già infranta, il sogno già distinto dalla realtà. Mary accetta, può accettare come attrice per la gioia di mentire a se stessa. E allora con rigorismo ibseniano l’autore impone anche a iei la dura necessità di scontare la colpa. Sconta innamorandosi di Andrea. E’ l’illusione dell’unità che ha superato in tutti e due i personaggi il dolore. Potrebbe essere l’ultima tappa per la conclusione.
Ma già Alda Borelli ha fatto preintendere tutta l’estranea risorsa di artificio che dovrà apparire nella voluta decadenza. Torna il passato, la logica. La cortigiana non può amare; ne morirebbe, perchè non saprà mai cancellare dalla faccia dell’uomo che l’attira la perplessità fredda e disgustosa. L’infelicità s’accompagna all’illusione, la vita è coeterna all’infingimento. Mary rinuncia per ubbidire al passato e alla propria coerenza: rinuncia ancora mascherando con gioia delittuosa la menzogna di Andrea: l’incoscienza che pesa sulla sua anima autocritica: e allora non ama più. Gli stranieri non si danno la mano. Bisogna fissare le responsabilità, nessuna assoluzione per chi ha mentito.
L’aridità dell’attrice può sbocciare qui nella scena finale con l’aperta decisione dello spasimo; si tratta almeno per un momento di consacrare la liberazione, anche a costo di rompere l’inesorabile schematismo statico dopo aver fissato per quattro atti il preciso rapporto della doppiezza e il limite del fantastico.
Anche i lineamenti di una tragedia autobiografica possono essere contenuti in questa inesorabile disciplina. C’è il calcolo anche quando la donna si concede.
Nello stesso modo riuscì alla nostra attrice la figurazione tragica de La donna di nessuno, gelida solitudine di inaridimento. <ref>(1) Ma forse la più bella astuzia di Alda Borelli, che or è qualche anno ancora si divertiva nelle fatiche dell’Aiglon, fu nella falsificazione e nella beffa della Signora delle Camelie. Trovammo Dumas rifatto nell’ironia. Il drammaccio sentimentale riabilitato nella freddezza. Invece della tradizionale parabola immaginata per il caso pietoso di una purezza che si conserva anche nell’avvilimento, la tragedia trasportata su un diverso piano di misura e di silenzio. Dicono che M. De Doche, la prima interprete, vi si prodigasse in tutti i toni, dalla spensierata allegria al cupo dolore e accontentasse il gusto per l’incomposta varietà, dell’autore torbidamente romantico. Alda Borelli invece respinge ogni elemento di dispersione, e ci offre un dramma più riposato in cui il romanticismo si vela di sfumature ironiche e lo spasimo si attenua in una pausa di melanconia.
E’ vero che Dumas voleva sopratutto scrivere dei pezzi di bravura per i diversi modelli retorici, ma in conclusione questo curioso duello dell’attrice coll’autore non è senza nuovissime sorprese.
S’incomincia con sopprimere la cortigiana. Margherita Gautier non può ritrovarsi nella gioia, non può spasimare nel dolore. Non è piccola scoperta quella di una creatura femminile teatrale non malata di isterismo: e qui appunto tutti i mezzi, anche più crudi tendono all’insensibile.
Nel famigerato colloquio col padre di Armando invece di smarrimenti e di lagrime s’incontra una fissità statuaria. Ascoltando, l’attrice contempla oggettivate, freddamente, le sue pene. E’ il processo di una decisione, di una volontà. Quando il signor Duval tace, ella può parlare ferma e rigida; abolisce senza rimpianto la scena grottesca del bacio paterno, perchè le sue astuzie mirano ad altri effetti. Si può seguire senza delusioni l’ultima scena del quinto atto:
Margherita rilegge la lettera in cui Georges Duval le annuncia di avere tutto svelato al figlio. Alda Borelli trae la lettera di sotto al guanciale con un fremito contenuto come un’ansia d’amore. La bacia, mentre la ritrova, soia tra le cose che la circondano e sono fuori di lei, che la possa commuovere. Lo sviluppo sentimentale è delicatissimo. Quella lettera le dà la garanzia oggettiva, esterna, della realtà dell’ardore da cui è intimamente compresa. Ma, dopo il bacio, un solo sguardo che ella vi getta su è bastevole. Non la banale «lettura» che si ritrova in Dumas. Quella lettera è reale, è il segno esterno di qualcosa che si spera e che accadrà; Margherita ne gioisce ritrovandola, perchè vi sente la consacrazione dell’interna commozione. Non legge; abbandonata ai suoi pensieri, che, tolto ogni dubbio, non sono più fantasticheria, ella si dice quella lettera che ha ormai tutta la sua passione: delicatamente, precisamente, sicura. «.Sono stato costretto a farvi del male e voglio ripararlo». Qui la gioia occupa il cuore: Margherita si ferma: forse non è tutto qui? e che altro si vorrebbe? Segue la lettera; «Abbiate cura della vostra salute...» Queste parole ella non le può ricordare. Non hanno più senso accanto alle altre. E l’attrice ha bisogno di leggerle, di fissarle; il suo spirito non se ne può convincere tanto da farle pensiero proprio, passione propria. La parola banale di conforto per la sua salute le viene di fuori, misteriosamente, e accresce la tragica coscienza chiusa del suo destino. Questa rigorosa sicurezza mantenuta anche nelle scene più apertamente conclusive è l’attestazione singolare delle veraci attività che la sua intelligenza e il suo calcolo nascondono. Un identico processo di virtuosità nell’annullamento temperato di sè troveremo nell’Amore senza stima, in Parisina, in Maternità, in Ali, o nei nevrotici drammi di Bataille, dove per altro la lotta tra l’appariscente artificio morbido e sentimentale degli autori urta, procurando dolci sorprese, contro il complesso gioco e la sottile contraffazione che l’attrice presenta nella sua dominante sicurezza. Sarebbe difficile segnalare in lei un’inquietudine che non si riduca subito alla gelidezza nativa, e tutte le ricerche acquistano il loro colore personalissimo per un’acre indifferenza e un’acuta amarezza, le sole qualità che rivelino ancora la donna, quasi con voluttà di perfidia, nell’ascesi dell’attrice.
Siffatte superiorità di compostezza non riuscirebbero chiare se dall’osservazione dei singolari cimenti cui il sua spirito si sottopone non risalissimo ad esami più integrali. Il segreto di Alda Borelli è nell’esuberanza delle sue esperienze vissute. Nessuno meno di lei può dirsi figlio d’arte. Il suo interesse per la scena è un lusso e una maturazione riflessiva di intensità superiore ed esterna alla sua vita. Non recita con ansia o con l’aspettazione di una sorpresa, non è femminilmente paurosa dell’imprevisto. Parrebbe che abbia già abbastanza vissuto: ora può dilettarsi del canto.
Le timidezze e le indecisioni sono soltanto formali: non si tratta mai, in nessun modo, di compromettere la persona. L’arte è veramente la sua seconda vita, è una meditata sicurezza in cui ella si trova rinata e dell’ immediatezza resta soltanto il ricordo esperto. L’atteggiamento di Alda Borelli attrice dopo il 1920 rassomiglia dunque lo studio raffinato di chi esaurisce tutti i suoi interessi nel disegno classico della forma, libera da ogni ingenuo attaccamento alla femminilità e all’umanità.
Sarebbe presuntuoso, quando la questione è in siffatti termini, porre, con previsioni troppo rigide, limiti precisi alla sua attività. Dalle sue reticenze bisogna attendersi al momento della realizzazione ogni sorta di sorprese, senza la noia della ripetizione. Intanto ella sarebbe senza dubbio la prima nostra attrice capace di definire nel giusto tono di innocenza artistica anime squallide di fredda perversità come la Clitennestra e la Rosmunda di Alfieri, la Lady Macbeth shakespeariana, Hedda Gabler.