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più giudizioso applaudire un’incontentabile vaghezza di strane varietà, come se «Il furfantello dell’Ovest», «Pigmalione», «Ma non è una cosa seria», «Cesare e Cleopatra», «Nell’ombra della vallata», fossero preferiti appunto per un gustoso esotismo e per quelle caratteristiche esterne che spiegano la loro coesistenza, nella mente dell’attrice, con «Peg del mio cuore», «Tien Hoa» e altrettali decorative fantasie. Invero è da questi atteggiamenti di serena umiltà e di fine umorismo che scaturiscono assiduamente nella Gramatica le liberazioni dalla femminilità più esasperatamente languida e dalla più sentimentale quotidianità. Il segreto più astuto di questa attrice è nella cantilena del suo sogno. Se talora i suoi accenti di languore non ci stancano, dobbiamo riflettere agli estatici atteggiamenti che ci avvertono appunto i lucidi istanti di disinteresse, le tranquille monotonie della fiaba non vissuta, ma giocata con umorismo di bimba astuta. Emma Gramatica è vera attrice quando si risparmia con calcolata misura e invece di femminili dedizioni ricama sottili episodi decorativi, e aeree fantasie comiche. Solo la vigile arguzia della sua satira, solo il candore che ella insinua nella parodia del manierismo riescono a farci ascoltare con gustosa sopportazione la storia delle «Gelosie di Lindoro». Ma il giuoco ambiguo è diventato così esperta abitudine che neppure i più scaltri ci saprebbero dire talvolta se nel sogno delicato d’ingenuità si riesca a salvare la finzione, o se non resti invece addirittura compromessa l’autobiografia. Sotto le complicazioni supposte dei drammi di pensiero ci sarebbe in tal caso nient’altro che il puntiglio di Mirandolina.