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busto» deve essere affrontata dall’attrice con serenità d’arte, con severità di ripensamento. E appunto perchè la nordica creatura selvaggia è lontana dall’anima di Emma Gramatica, felice figuratrice) di bimbe selvagge, tormentosamente solitarie, miti e curiose (Scampolo, Cleopatra, Pigmalione, La moglie che sa, ecc.) - o di vivaci e ingenue parodie della malizia (Mirandolina, Zelinda) - ella ha dovuto abbandonare la maniera, ricreare l’ambiente, rinnovare i moti e gli sforzi.

Quasi si sarebbe tentati di convenire che la Gramatica abbia saputo rifare l’unità della sua figura, abbia superato la soluzione di continuità tra la smania distruttiva (che le fa uccidere il figlio di Thea, come avrebbe bruciato i suoi capelli biondi) e l’aspirazione a esprimere qualche opera bella, il bisogno della creazione estetica; perchè i due elementi, distruzione ed estetismo, sono stati rivissuti in vitale identità di solitudine mediante l’ironia opposta alla disgregazione della normalità. Ricondotta Hedda a questa sua originalità poetica parrebbe tolto ogni pericolo di banale teatralità. Solennemente si svolge l’azione dal III al IV atto (nel processo risolutivo tra Hedda e Brak): il trionfo della vergine che rivendica la sua autonomia colla morte è fatto presentire con sicura delicatezza di analisi e la conclusione è misuratissima di emozioni, poiché la catastrofe di questa eroina che precipita per la volontà di perversione (ultimo grido di idealità di una vergine che ha sentito il matrimonio come decadenza) può avere un senso logico ed armonico soltanto quando si svolga con perfetta impassibilità. Così intesa, Hedda Gabler sarebbe stata veramente il cimento di grande attrice della Gramatica. Senonchè questa era la linea fissata, pare, da Eleonora