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I momenti erano di una difficoltà eccezionale; Cavour lo capì da principio e non ebbe pace. Ordinò al Persano di andare a Napoli con la flotta, e, giunto ch’ei vi fu, la presenza dell’armata sarda accrebbe l’ardire degli unitarii e degli uomini di ordine. Prima ancora del Devincenzi, del Nisco e del Nunziante, aveva mandato a Napoli, a breve distanza l’uno dall’altro, Emilio Visconti Venosta, Giuseppe Finzi, Ignazio Ribotty e Carlo Mezzacapo, per farli cooperare al pronunciamento militare e al compimento della rivoluzione sul continente prima dell’arrivo di Garibaldi, e prima che sorgessero complicazioni diplomatiche, che egli aveva ben motivo di temere. Ma il pronunciamento, che pareva a Cavour il solo mezzo per giustificare la rivoluzione innanzi all’Europa, non fu possibile. Quel che narra il Nisco, a proposito della conversazione che ebbero il Devincenzi e il D’Afflitto col De Sauget ed altri ufficiali superiori nel quartiere di Pizzofalcone, mi è confermato, con nuovi particolari, dal Devincenzi. Sono notevoli le gravi parole, con le quali il vecchio De Sauget pose termine al colloquio: “lui e i suoi colleghi, ancor che il volessero, non potrebbero per verun modo salvare l’esercito napoletano. Non aver da gran tempo essi più alcuna autorito, sull’esercito; non essere in modo alcuno più sentiti i loro consigli; più essi erano elevati nei gradi, meno erano possenti; poichè l’alito corrompitore di ogni ordine nello Stato, quello della polizia, s’era introdotto nell’esercito; il soldato faceva la spia al caporale, il caporale al sergente, il sergente al tenente, questi al capitano .... Spero, soggiunse, che noi siamo andati esenti da questa tabe„.


Emilio Visconti Venosta, il più autorevole degli agenti di Cavour a Napoli, aveva appena trent’anni, ma rivelava vecchia serietà di cospiratore. Giunse colà pochi giorni dopo la promulgazione dell’Atto Sovrano, prima che Garibaldi sbarcasse in Calabria e prima della battaglia di Milazzo. Cavour, che molto l’apprezzava, lo mandò a chiamare, e nel colloquio seguito fra loro, alla presenza di Farini, ministro dell’interno, gli fece intendere che egli aiutava Garibaldi; ma nel tempo stesso si preoccupava dell’avvenire, se Garibaldi, e forse con lui i partiti estremi, rimanessero padroni di metà dell’Italia, e più ancora, se n movimento italiano sfuggisse alla direzione del governo del Re. Egli aggiunse che i pericoli maggiori si potevano proba-