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da Ferdinando II. Il Giornale di Sicilia ricomparve il 7 giugno nello stesso formato, ed in quel primo numero, al posto dello stemma borbonico, c’era quello di Savoia; al posto del decreto per il figliuolo di Maniscalco, il decreto da Salemi, col quale Garibaldi si proclamava dittatore, in nome d’Italia e Vittorio Emanuele. Al Ventimiglia, partito per Napoli, succedeva nella direzione Isidoro La Lumia, col dottor Giuseppe Lodi. Della vec- chia redazione rimasero Girolamo Ardizzone, il quale era stato il collaboratore più assiduo, ed a cui il giornale fu affidato poco tempo dopo; Giuseppe Antonio Arieti, Luigi Corvaja e Francesco Scibona Battolo. In quella guisa, che, avvenuto l’ingresso di Filangieri a Palermo e dopo l’attentato di Agesilao Milano, il Giornale di Sicilia pubblicò per mesi interi gli indirizzi di fedeltà e di felicitazioni da parte dei comuni tutti dell’Isola a Ferdinando II, lo stesso giornale iniziò la serie degl’indirizzi degli stessi comuni a Garibaldi, perchè s’investisse della dittatura, che aveva assunta sin dal 14 maggio a Salemi. E negli avvisi teatrali dello stesso foglio si cominciò a leggere dal 25 giugno, anche questo: “Teatro Nazionale a San Ferdinando: Salvatore Maniscalco, dramma e ballo„. Il teatro nazionale era il presente teatruccolo “Umberto„; ma prima del 27 maggio era semplicemente “teatro San Ferdinando„. E inutile dire che quella rappresentazione era tutta una sfuriata contro l’ex direttore di polizia, la cui persona, al comparire sulla scena, era salutata da un uragano di fischi e da un coro selvaggio d’imprecazioni.


L’arcivescovo di Palermo, monsignor Naselli, non si mosse dal suo posto nei giorni terribili, nei quali a Palermo si combatteva e si moriva; e quando il nuovo ordine di cose fu stabilito, egli non esitò a riconoscerlo e andò a visitare il dittatore, così come questi, consapevole della forza del sentimento religioso in Palermo e in tutta la Sicilia, nonchè dell’intimo accordo esistente fra il clero e il laicato, si limitò a pubblicare soltanto il decreto che sopprimeva i gesuiti e i liguorini, come già fece la rivoluzione nel 1848. Se nell’esecuzione di quel decreto vi furono eccessi vergognosi, ch’è meglio non ricordare, la colpa non si può far risalire a Garibaldi, ma ad alcuni di quegli elementi indigeni, per i quali la libertà era profitto e violenza. Garibaldi anzi tenne in quei giorni un contegno di austera moderazione e