La donna di governo/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Appartamento delle due sorelle.
Giuseppina e Rosina.
Questa donna insolente è troppo ardimentosa,
E lo zio che non vede l’inganno e la malizia,
A noi per una serva commette un’ingiustizia.
Rosina. Veramente è una cosa che non si può soffrire,
E a quanti si racconta nessun la sa capire;
Ma io che sono furba, il perchè ho penetrato.
Sorella, Valentina ha il suo padron stregato.
Giuseppina. Eh, scioccherie son queste. Rider mi fan le genti,
Quando sento parlare di certi stregamenti.
Le malie che ha costei col vecchio praticate,
Son delle donne scaltre le fraudolenze usate.
So tutta la condotta del suo felice incanto.
Uditela, germana, e giudicate poi,
Se vi par ch’io sia furba un pochin più di voi.
Costei venuta in casa per serva da cucina
Si diede da principio a far la modestina;
In compagnia degli altri, o in camera soletta,
Stava cogli occhi bassi e colla bocca stretta,
E quando una parola sentia dir licenziosa,
Coprivasi la faccia, facea la scrupolosa.
Fatte le sue faccende con zelo ed attenzione,
A lavorar mettevasi nel quarto del padrone.
A ogni moto, a ogni cenno che in camera sentiva,
Col lavor nelle mani colà gli compariva.
Udiva i suoi comandi senza mirarlo in viso,
S’ei le dicea uno scherzo, ella facea un sorriso;
Quando di casa usciva, e quando egli tornava,
Ella il padron vestiva, ella il padron spogliava.
D’inverno intiepidiva i suoi vestiti al foco,
D’estate una camiscia metteva in ogni loco;
La mattina per tempo, appena risvegliato.
Era attenta a portargli al letto il cioccolato.
Sa ch’ei mangia di gusto, ed ella ogni mattina
Facea colle sue mani per lui la pietanzina;
La sera stando seco quando l’avea spogliato,
Narravagli i successi di tutto il vicinato,
E avea la sofferenza, per star con esso unita,
Di giocar a tresette di un soldo alla partita.
Un poco di attenzione, un poco di ciarlare.
Un po’ di buona grazia lo giunse a innamorare;
E quando ella s’accorse d’averlo innamorato,
Di diventar padrona la massima ha fondato.
Resa di giorno in giorno ardita sempre più,
Principiò a metter male dell’altra servitù.
Mostrando la spronasse il zelo ed i rimorsi,
Vedendo nel padrone far breccia i detti suoi,
Diedesi a metter male, e a mormorar di noi;
Ed il vero col falso meschiando in buona forma,
La massima gl’impresse di fare una riforma.
Credendola il buon vecchio donna di gran giudizio,
La trasse di cucina dall’umile esercizio.
Le diede della casa governo e direzione,
Cambiò vari domestici a sua requisizione.
Più del padrone istesso comanda in queste soglie;
Per quello che si dice, vuol prenderla per moglie.
E una semplice serva è giunta a questo segno
Sol colle stregherie d’un femminile ingegno.
Rosina. Per verità, sorella, voi dir sapete tanto.
Ch’essere mi parete capace d’altrettanto.
Giuseppina. No, non son io capace d’usar simili inganni,
Ma li conosco, e bastami di ripararne i danni.
Ho avvisata di tutto nostra zia Dorotea:
Da noi verrà fra poco, saprà la nostra idea.
Ella che fu sorella di nostra madre, ha in mano
La ragion di difenderci contro d’un zio inumano.
Rosina. Se vien qui nostra zia, è tanto una ciarliera,
Che a strepitar principia, ed a gridar fin sera.
E s’ella in quest’incontro non modera il suo vizio.
Credetemi, sorella, nascerà un precipizio.
Giuseppina. Nasca quel che sa nascere, s’ha da finire un dì.
Rosina. Ma se la zia si scalda...
Giuseppina. Oh, per l’appunto è qui.
(osservando fra le scene)
SCENA II.
Dorotea e detti.
Giuseppina. Son serva.
Dorotea. State ben? (siede)
Dorotea. Con queste vostre istorie quando si ha da finirla?
Quando si caccia al diavolo codesta massaraccia,
O quando le facciamo un segno sulla faccia?
Rosina. Sentite? Ve l’ho detto. (a Giuseppina)
Giuseppina. Da noi, signora zia,
Il modo non abbiamo di farla cacciar via.
Il vecchio non ci ascolta.
Dorotea. Oh vecchio rimbambito.
Senza riputazione! dal vizio incancherito!
Rosina. Zitto, che non vi senta.
Dorotea. Che importa che mi senta?
(alzandosi furiosamente)
Glielo dirò sul viso, se il diavolo mi tenta.
E se le mie nipoti seguirà a maltrattare,
Saprò senza riguardi mandarlo a far squartare, (siede)
Giuseppina. Se voi non ci assistite...
Dorotea. La vogliam veder bella!
(dimenandosi sulla sedia)
Rosina. Ma non facciamo strepiti. (a Dorotea)
Dorotea. Povera scioccarella! (a Rosina)
Rosina. Pensiamo a qualche modo...
Dorotea. Gliela farem vedere.
Rosina. Senza tanto susurro...
Dorotea. Fate meglio a tacere.
Rosina. Già la signora zia vuol mettermi in un sacco,
E poi non farà nulla.
Dorotea. Oh cospetto di bacco! (si alza)
Voi mi fareste dire delle bestialità.
Certo, con una serva andiam con civiltà.
Vi vuol altro che dire: strepiti non facciamo.
(caricandola)
Via, colla vostra flemma a carezzarla andiamo.
Che bel temperamento da giovane prudente!
Parmi ancora impossibile si dia di questa gente. (siede)
(mettendosi il fazzoletto agli occhi)
Giuseppina. Parla per nostro bene.
(a Rosina)
Dorotea. Non la posso soffrire. Da piangere vi viene?
(alzandosi bel bello)
Piange la bambinella? l’hanno mortificata?
(deridendola)
Rosina. Tutti di me si burlano. Sono pur sfortunata.
(piangendo parte)
SCENA III.
Dorotea e Giuseppina.
Che vorrei le restassero i segni in sulle gotte.
Giuseppina. Qualche volta, credetelo, anch’io m’arrabbierei.
Mi getterei nel fiume, s’io fossi come lei.
Ma lasciam ch’ella dica, e ritroviamo il modo
Di troncar, s’è possibile, di questo gruppo il nodo.
Dorotea. Chiamatela costei, sentiam cosa sa dire.
Giuseppina. S’io la mando a chiamare, non ci vorrà venire.
E poi, quand’ella venga, inutile si rende
L’accusa e la minaccia, se il vecchio la difende.
Dorotea. E il vecchio ove si trova?
Giuseppina. È fuor di casa ancora.
Dorotea. Aspetterò ch’ei venga, farò sentirmi or ora.
Giuseppina. Ma frattemto ch’ei viene, fra noi pensiamo un poco
La maniera di farmi uscir di questo loco.
Dorotea. Maritatevi.
Giuseppina. Come?
Dorotea. Siete pure sguaiata.
Pare che non si sappia che siete innamorata.
Giuseppina. Bene, signora zia, voi potreste aiutarmi,
Ma si potrebbe ancora lasciar di strapazzarmi.
Giuseppina. Certo, se dirmi io sento...
Dorotea. Lo conoscete pure il mio temperamento.
Da una zia che vuol bene, tutto soffrir si suole.
Io misurar non posso i gesti e le parole.
Se il dicesse Rosina, io la compatirei,
Ma siete, a quel ch’io vedo, più ignorante di lei.
Giuseppina. (Mi convien tollerarla finchè il bisogno il chiede). (da sè)
Dorotea. Sapete pur ch’io v’amo.
Giuseppina. Sì, cara zia, si vede.
Tanto alla bontà vostra e al vostro amor mi affido,
Che il cor sinceramente vi svelo e vi confido.
Amo il signor Fulgenzio.
Dorotea. Lo so; stamane è stato
Da me il signor Fulgenzio, e anch’ei me n’ha parlato.
Questo per voi mi sembra un ottimo partito.
Ha tutti i requisiti che fanno un buon marito.
Veggo che tutti due siete di ciò contenti;
Gli ho detto che qui venga, ed ei verrà a momenti.
Giuseppina. Verrà qui?
Dorotea. Senza fallo.
Giuseppina. Di giorno!
Dorotea. Cosa importa?
Giuseppina. Cosa dirà lo zio, se il vede a questa porta?
Dorotea. Dica quel che sa dire. Io sosterrò l’impegno.
Giuseppina. No, per amor del cielo.
Dorotea. Puh! che testa di legno!
Giuseppina. A chi testa di legno?
Dorotea. A voi.
Giuseppina. Bene obbligata.
Dorotea. Che dia voi! non sapete ne men se siete nata!
Di chi avete paura?
Giuseppina. Che il vecchio non sopporti...
Dorotea. Non ci son io?
Giuseppina. Non basta.
Giuseppina. (Ma che gentil maniera!) (da sè)
Dorotea. Nipote mia, mi scaldo,
Perchè, già lo sapete, ho il sangue un poco caldo.
E quando ch’io mi sento a contradir, confesso
Non porterei rispetto ne anche a mio padre istesso.
Però non mi crediate sì scarsa di giudizio,
Ch’io voglia in questa casa produrre un precipizio.
Lasciate che Fulgenzio possa venir da voi;
Se non è in casa il vecchio, gli parlerem da noi.
E se Fabrizio il vede, ritroverò un pretesto.
Lasciatemi operare, sono da voi per questo.
Tutto riuscirà bene.
Giuseppina. Ma non vi è questa fretta...
Dorotea. Ma non mi contradite, che siate maladetta.
Giuseppina. Per non più contradirvi, anderò via, signora.
Dorotea. Dove diavolo andate? Restate qui in malora.
Giuseppina. Siete molto rabbiosa!
Dorotea. È ver, non lo nascondo.
Son così di natura, così son nata al mondo.
Io vi faccio da madre; davver, vi voglio bene,
Il sangue per giovarvi trarrei dalle mie vene.
Cara, tenete un bacio, farò quel che mi tocca.
Ma lasciatemi dire quel che mi viene in bocca.
Giuseppina. Non so che dir, sfogatevi, con me poco mi preme;
Ma guai se collo zio vi ritrovate insieme.
Egli è al pari di voi focoso e subitano;
Non vorrei che s’avesse a susurrar Milano.
Dorotea. Eh, saprò regolarmi...
Giuseppina. Vien gente. Chi sarà?
Dorotea. Ecco il signor Fulgenzio.
Giuseppina. Ci siamo in verità.
Dorotea. Non abbiate paura. (a Giuseppina)
Giuseppina. Venite pur, signore. (a Fulgenzio)
SCENA IV.
Fulgenzio e dette.
Dorotea. Venite. Di che avete timore?
Fulgenzio. Non vorrei che vi fosse... Ho un po’ di soggezione.
Dorotea. Avanzatevi, dico. Siete il gran bernardone.
Fulgenzio. Grazie, signora mia.
Dorotea. Grazie, grazie di che?
Or che nessun ci sente, spiegatevi con me.
Se amate Giuseppina, se la bramate in sposa,
Potria la dilazione riuscir pericolosa.
O subito si faccia, o subito si sciolga.
Fulgenzio. Tutto vuole il suo tempo.
Dorotea. Il malan che vi colga.
Giuseppina. Caro signor Fulgenzio, mia zia non pensa male;
Sull’animo del zio sapete chi prevale.
L’audace Valentina, perch’ei non dia la dote,
Disturberà in eterno le nozze alla nipote,
E poi sarò costretta...
Dorotea. E poi sarà forzata
Rinchiusa in quattro muri andar da disperata.
E se tardar volete a porgerle soccorso,
Potete andare a farvi accarezzar da un orso.
Fulgenzio. Per carità, signora, non sono un uom di stucco.
Lasciatemi pensare.
Dorotea. Povero mamalucco!
Giovine, bella, ricca, civile e spiritosa.
Che vi vuol ben, che brama di essere vostra sposa,
Di cui desio mostraste di diventar marito,
E pensar ci volete? Uh! che siate arrostito.
Fulgenzio. Partirò, a quel ch’io vedo, senz’essermi spiegato.
Se parlate voi sola.
Dorotea. Io? se non ho parlato.
Giuseppina. Sentiam, signora zia, sentiam quel ch’ei sa dire.
Fulgenzio. Pronto sono a sposarla.
Dorotea. Subito dunque...
Fulgenzio. Adagio...
Dorotea. Oh, vi faccio, figliuoli, un pessimo presagio.
Fulgenzio. Ma perchè?
Dorotea. Innanzi pure.
Fulgenzio. Pria che l’affar sia fatto.
Preparar delle nozze non devesi il contratto?
Dorotea. Sì, sì, perdete il tempo nel fabbricar lunari,
E poi la sposerete nei spazi immaginari.
Fulgenzio. E sarà così perfido il zio colla nipote,
Che le vorrà negare il dritto della dote?
Dorotea. Eh fratello carissimo, a ravvisarvi imparo:
Siete un di quegli amanti che cercano il danaro.
Sapete qual sarà dell’avarizia il frutto?
Perderete la dote, e la fanciulla, e tutto.
Ho creduto che foste di un altro naturale.
Andate; ho conosciuto che siete un animale.
Fulgenzio. Servo di lor signore.
Dorotea. Serva, padrone mio.
Giuseppina. Fermatevi, signore, che vo’ parlare anch’io.
Mia zia con questo caldo rovina i fatti miei.
So anch’io, quando bisogna, strillare al par di lei.
Se aiuto, se consiglio ricerco da qualcuno,
Non ho, quando bisogni, paura di nessuno.
Mio zio vuol maritarmi con un che piace a lui;
Ei del mio cor dispone, io l’ho disposto altrui.
E contrastar non puote ch’io m’abbia a soddisfare.
(Dorotea fa moto di volerla interrompere)
Signora, con licenza, lasciatemi parlare.
Fulgenzio dice bene, vorria la convenienza,
Che al zio prima di farlo chiedessi la licenza,
E ch’ei andasse a fare quel passo che va fatto,
E che si stabilisse la cosa per contratto.
Farà tutti gli sforzi perchè non nasca niente,
O farà tanto in lungo andar la conclusione,
Che mi farà crepare innanzi la stagione.
Lo stato in cui mi trovo, sollecita mi rende;
La mia consolazione da voi solo dipende.
S’è ver che voi mi amate, lasciate ogni riguardo.
Dorotea. Siete, se non lo fate, un amator bastardo.
Giuseppina. V’era bisogno adesso d’un’insolenza inclusa?
Dorotea. Non si finisce bene, senza un poco di chiusa.
Fulgenzio. Ho capito, signora, e del mio amore in segno,
Quando che più vi piaccia, darvi la man m’impegno.
(a Giuseppina)
Dorotea. Anche adesso?
Fulgenzio. Anche adesso.
Dorotea. Ora sì, e prima no?
Fulgenzio. Quel ch’io pria non sapeva, or dal suo labbro io so.
Dorotea. Ma guardate, se siete propriamente un balordo;
Non ve l’ho detto anch’io? perchè faceste il sordo?
Fulgenzio. Signora Dorotea, parlando in guisa tale,
S’io fìngo d’esser sordo, mi pare il minor male.
Dorotea. (Che ti venga la rabbia!) (da sè)
Fulgenzio. Or vi darei la mano.
Ma cotesta signora...
Dorotea. Sentite che villano.
Ancor ch’io m’affatico, che faccio quel che faccio,
Ardisce un’insolenza di dirmi sul mostaccio?
Cosa pretendereste? che una fanciulla onesta
Senza di alcun parente facesse una tal festa?
Sono sua zia, signore, e abbiate convenienza,
E date alla nipote la mano in mia presenza.
Fulgenzio. (Ma che parlar gentile!) (da sè)
Giuseppina. Fulgenzio, se mi amate,
Sollecitiam, vi prego.
Fulgenzio. Farò quel che bramate.
SCENA V.
Valentina e detti.
Giuseppina. E ben, cosa volete?
Dorotea. Qui nessun vi domanda; andarvene potete.
Valentina. Signore mie, perdonino. Io vengo per far bene.
Ad avvisarle io vengo che ora il padron sen viene.
Giuseppina. (Povera me!) (da sè)
Dorotea. Per questo? A noi che cosa preme?
Noi mandiamo il padrone e chi ci avvisa insieme.
Valentina. Quanto mi piace mai questa signora! almeno
Sempre ha brillante il cuore, sempre ha il volto sereno.
Le cose ch’ella dice, sono piene di sali.
Dorotea. E voi mi risvegliate gli effetti matricali.
Valentina. Bravissima davvero, mi piace sempre più.
Dorotea. Sta nel parlar sincero tutta la mia virtù.
Fulgenzio. Signora Dorotea, se vuole, io m’incammino.
Dorotea. Io resto ancora un poco; andate voi, cugino1.
Valentina. Suo cugin quel signore?
Dorotea. Cugin di mio marito.
Valentina. Me ne consolo tanto col suo cugin compito. (con ironia)
Dorotea. Cosa vorreste dire? Fulgenzio è mio parente.
E se voi sospettate, siete un’impertinente.
Valentina. Io sospettar, signora? non ho questo difetto.
Ma s’ella si riscalda, può dar qualche sospetto.
Per altro, in verità, da ridere mi viene;
Perchè meco nascondersi, s’io posso far del bene?
Se la mia padroncina brama di maritarsi,
Perchè meco si mostra restia nel confidarsi?
Crede forse d’avermi nemica in tal faccenda?
Il ver, se così crede, mi par che non intenda.
Fino a bramar di essere del mio padron la sposa;
Figurisi ch’io aspiri a divenir padrona:
Di oppormi alle sue nozze io non sarei sì buona.
Anzi se l’interesse m’ha vinta e persuasa,
Deggio desiderare di restar sola in casa.
Temono ch’io contrasti lo sposo alle nipoti,
Perch’abbia il mio padrone a risparmiar le doti?
Prima, non son capace di usar questa malizia,
E poi non hanno il modo di farsi far giustizia?
Certo mi fanno un torto a sospettar di me.
Mi odiano in questa casa, e non saprei perchè.
Se meco le signore si fosser confidate.
Protesto che a quest’ora sarebber maritate;
E anche presentemente, se in me si von fidare.
Se mi parlano schietto, vedran quel che so fare.
Fulgenzio. Parmi che questa giovane parli sincera e schietta.
Valentina. (Se mi prestano fede, vo’ fare una vendetta). (da sè)
Giuseppina. (Signora zia, che dite? vogliam di lei fidarci?)
(a Dorotea)
Dorotea. (Proviamo. Finalmente che mal può derivarci?)
(a Giuseppina)
Giuseppina. Se vi foste condotta più docile con noi,
Noi concepito avremmo dell’affetto per voi.
E se ora v’impegnate a pro del piacer nostro,
Contribuir potremo noi pure al bene vostro.
(a Valentina)
Valentina. Vedete, mia signora? se mi aveste avvisata.
Ora in un labirinto voi non sareste entrata.
Fate venir l’amante nel vostro appartamento,
E lo zio con un altro di voi fa l’istrumento.
Giuseppina. Con ehi vuol maritarmi?
Valentina. Con Pasqual Monferrato.
Dorotea. Con quel brutto vecchiaccio? oh che sia scorticato!
Valentina. Eccolo ch’egli viene.
Fulgenzio. Ch’io vada?
Valentina. Per or non vi consiglio di andar per quella strada.
Se v’incontra, è finita.
Fulgenzio. Vi vuol temperamento.
Valentina. Vi potete nascondere nel!’altro appartamento.
Fulgenzio. E poi?
Valentina. Lasciate fare.
Giuseppina. Fidiamoci di lei.
Dorotea. Via, stolido. (spingendolo verso l’altra camera)
Fulgenzio. Obbligato. (passa nell’altra camera)
Valentina. (Questa volta ci sei), (da sè)
Giuseppina. Valentina, mi fido.
Valentina. Sì, fidatevi pure.
Dorotea. Non ci fate la bestia.
Valentina. Oh, ponno star sicure.
SCENA VI.
Fabrizio, Giuseppina, Dorotea, Valentina.
Giuseppina. Siam qui, signore zio.
Fabrizio. Anche voi, mia signora? (a Dorotea, con sdegno)
Dorotea. Certo, ci sono anch’io.
Fabrizio. Non potreste far grazia d’andarvene di qua?
Dorotea. Che maniera incivile! che bella asinità!
Fabrizio. Oh cospetto del diavolo!
Dorotea. Corpo di satanasso!
Fabrizio. Che ardir!
Dorotea. Che petulanza!
Valentina. Cos’è questo fracasso?
(con autorità)
State zitto, signore. (a Fabrizio)
Fabrizio. Codesta è un’insolenza.
Valentina. Io non vo’ che si gridi.
Giuseppina. (Di una femmina scaltra tanto il poter prevale,
Che gli empiti raffrena d’un animo bestiale). (da sè)
Fabrizio. Nipote, io vi cercava; alfin vi ho ritrovata.
Vengo a darvi la nuova che or or vi ho maritata.
Sarete alfìn contenta di uscir da queste porte.
Ed il signor Pasquale sarà vostro consorte.
Giuseppina. Quel vecchio?
Dorotea. Quel cadavere?
Fabrizio. Lo prenderà.
Dorotea. Nol vuole.
Fabrizio. Sì, al corpo della luna.
Dorotea. No, al cospetto del sole.
Fabrizio. Chi comanda?
Valentina. Signore, con sua buona licenza.
Non si ha colle fanciulle da usar la prepotenza.
Ella vuol maritarsi come le pare e piace.
Un zio, s’è galantuomo, lo dee soffrire in pace.
Ella per maritarsi ha pronto un altro sposo.
Fabrizio. E chi è costui?
Valentina. Fulgenzio, che in quelle stanze ascoso.
Fabrizio. Come!
Giuseppina. Così parlate?
Dorotea. È questo il vostro impegno?
Valentina. Io credea di far bene.
Dorotea. Meritereste un legno.
Valentina. Piano, signora mia, non mi parlate altera.
Ho fatto quel che ha fatto ella con Baldissera.
S’ella lo fe’ per zelo, lo zelo a me si aspetta;
Se per astio lo fece, lo faccio per vendetta.
Ma io giustificata mi son col mio padrone;
Ella, se può, s’ingegni coll’arte e la ragione.
E se i disegni miei le son riusciti amari,
Col suo sublime ingegno a provocarmi impari.
Giuseppina. Perfida!
Fabrizio. Fuori di quella stanza.
Fuori di quella casa. (verso la camera dov’è Fulgenzio)
SCENA VII.
Fulgenzio e detti.
Parto da queste soglie, perchè il padron voi siete.
Ma voi, donna ribalda, voi me la pagherete.
(a Valentina, e parte)
Fabrizio. Meco averà che fare.
Giuseppina. Signor, chiedo perdono.
(a Fabrizio)
Perfida, un qualche giorno conoscerai chi sono.
(a Valentina, e parte)
Fabrizio. Non ci fate paura.
Dorotea. Oh vecchio incancherito! (parte)
Valentina. Povera me! sentite? Perch’io vi porto amore,
Deggio mille strapazzi soffrir con mio rossore.
Tutti mi voglion morta.
Fabrizio. No, gioja mia diletta,
Non temer di costoro. Vedran chi sono, aspetta.
Valentina. Con Giuseppina in casa non avrò mai respiro.
Fabrizio. Che ho da far di costei?
Valentina. Cacciarla in un ritiro.
Fabrizio. Subito, immantinente, di casa uscirà fuore,
Anderà in un ritiro per forza o per amore.
Vo’ a ritrovar chi spetta2, vo’ a ritrovare il loco.
Chi sono e chi non sono, farò vedere un poco.
Vedran se Valentina comanda in queste soglie.
Oggi... lo voglio dire. Oggi... sarai mia moglie, (parte)
Voglio, se fia possibile, sposarmi a Baldissera.
Ma pria che si discopra l’amor che m’arde in seno,
Di quel che mi abbisogna, vo’ provvedermi appieno.
Di queste due sorelle la prima è castigata.
L’altra col mezzo mio vo’ che sia maritata.
So che Ippolito l’ama, con lui m’intenderò.
Una prodiga mancia da lui procurerò.
E operando in tal guisa farò che il mondo dica,
Ch’io son con chi lo merita della giustizia amica.
In pratica si vede che al mondo fa figura
Chi a tempo sa adoprare l’inganno e l’impostura.
È ver che qualche volta suol partorir rovine,
Ma se fortuna è meco, posso sperar buon fine. (parte)
Fine dell’Atto Terzo.