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410 | ATTO TERZO |
SCENA IV.
Fulgenzio e dette.
Dorotea. Venite. Di che avete timore?
Fulgenzio. Non vorrei che vi fosse... Ho un po’ di soggezione.
Dorotea. Avanzatevi, dico. Siete il gran bernardone.
Fulgenzio. Grazie, signora mia.
Dorotea. Grazie, grazie di che?
Or che nessun ci sente, spiegatevi con me.
Se amate Giuseppina, se la bramate in sposa,
Potria la dilazione riuscir pericolosa.
O subito si faccia, o subito si sciolga.
Fulgenzio. Tutto vuole il suo tempo.
Dorotea. Il malan che vi colga.
Giuseppina. Caro signor Fulgenzio, mia zia non pensa male;
Sull’animo del zio sapete chi prevale.
L’audace Valentina, perch’ei non dia la dote,
Disturberà in eterno le nozze alla nipote,
E poi sarò costretta...
Dorotea. E poi sarà forzata
Rinchiusa in quattro muri andar da disperata.
E se tardar volete a porgerle soccorso,
Potete andare a farvi accarezzar da un orso.
Fulgenzio. Per carità, signora, non sono un uom di stucco.
Lasciatemi pensare.
Dorotea. Povero mamalucco!
Giovine, bella, ricca, civile e spiritosa.
Che vi vuol ben, che brama di essere vostra sposa,
Di cui desio mostraste di diventar marito,
E pensar ci volete? Uh! che siate arrostito.
Fulgenzio. Partirò, a quel ch’io vedo, senz’essermi spiegato.
Se parlate voi sola.
Dorotea. Io? se non ho parlato.
Giuseppina. Sentiam, signora zia, sentiam quel ch’ei sa dire.