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LA DONNA DI GOVERNO | 413 |
SCENA V.
Valentina e detti.
Giuseppina. E ben, cosa volete?
Dorotea. Qui nessun vi domanda; andarvene potete.
Valentina. Signore mie, perdonino. Io vengo per far bene.
Ad avvisarle io vengo che ora il padron sen viene.
Giuseppina. (Povera me!) (da sè)
Dorotea. Per questo? A noi che cosa preme?
Noi mandiamo il padrone e chi ci avvisa insieme.
Valentina. Quanto mi piace mai questa signora! almeno
Sempre ha brillante il cuore, sempre ha il volto sereno.
Le cose ch’ella dice, sono piene di sali.
Dorotea. E voi mi risvegliate gli effetti matricali.
Valentina. Bravissima davvero, mi piace sempre più.
Dorotea. Sta nel parlar sincero tutta la mia virtù.
Fulgenzio. Signora Dorotea, se vuole, io m’incammino.
Dorotea. Io resto ancora un poco; andate voi, cugino1.
Valentina. Suo cugin quel signore?
Dorotea. Cugin di mio marito.
Valentina. Me ne consolo tanto col suo cugin compito. (con ironia)
Dorotea. Cosa vorreste dire? Fulgenzio è mio parente.
E se voi sospettate, siete un’impertinente.
Valentina. Io sospettar, signora? non ho questo difetto.
Ma s’ella si riscalda, può dar qualche sospetto.
Per altro, in verità, da ridere mi viene;
Perchè meco nascondersi, s’io posso far del bene?
Se la mia padroncina brama di maritarsi,
Perchè meco si mostra restia nel confidarsi?
Crede forse d’avermi nemica in tal faccenda?
Il ver, se così crede, mi par che non intenda.
- ↑ Nell’ed. Zatta si legge; andate pur, cugino.